Sui referendum Repubblica e Corriere si schierano con i padroni e i loro interessi

Il voto dell'8 e 9 giugno
La Cgil sfida un’intera fase storica che ha sospinto la volontà di potenza delle agenzie del denaro abituate ad avere tutto e subito senza incontrare ostacoli.

Dalla sua ottica vetero-liberale, per la quale il dominio del capitale appartiene ad un ordine quasi naturale delle cose, Tito Boeri ha sentenziato che il referendum di giugno è “contro la storia”. In effetti la Cgil sfida un’intera fase storica che ha sospinto la volontà di potenza delle agenzie del denaro abituate ad avere tutto e subito senza incontrare ostacoli. L’ambizione di Landini è quella di invertire una rotta sbagliata che ha destrutturato le relazioni sindacali annichilendo il potere contrattuale dei lavoratori: non rimane traccia delle minute libertà solidali che furono strappate negli anni del conflitto di classe.
La tendenza allo scivolamento nella considerazione politica e sociale del valore del lavoro riguarda tutti i paesi. In Italia, però, tra il 2018 e il 2024 gli stipendi sono diminuiti del 10%, mentre in Germania hanno assistito ad una impennata di 14 punti. Su questo differenziale incide di sicuro la struttura dell’impresa italiana che arranca nella produttività e competitività. Senza esprimere una presenza strategica nei rami della microelettronica, dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie, per realizzare più elevati profitti il padronato punta solo sullo sfruttamento illimitato della capacità lavorativa e rifiuta ogni contenimento dei contratti a termine. Esigue retribuzioni, elusioni contributive e assoluta libertà di licenziamento sono afferrate come la più realistica fonte di ricchezza entro un apparato produttivo a modesto contenuto cognitivo. Nelle condizioni odierne dell’occupazione, poche sono le figure dirigenziali (1,4% è la porzione di dirigenti al cospetto di una media europea del 4,1) e scarso l’inquadramento in attività tecno-scientifiche (il 14% dei dipendenti a fronte del 22,4 nell’area Ue). Il sistema d’impresa, con i suoi arcaici processi di produzione, crea posti di lavoro, per giunta del tutto precari, nel terziario poco avanzato. Si tratta di settori caratterizzati da una debole componente innovativa e quindi a più forte intensità di sfruttamento della manodopera, con le insidie per la salute nascoste dietro il regime impenetrabile dei sub-appalti e le opacità sul terreno delle tutele all’interno delle piccole imprese.
Si parla, non a caso, di lavoro povero (il 23% degli occupati è a rischio povertà) per cogliere il destino dei nuovi ceti operai, per i quali è di fatto impossibile il mantenimento degli standard acquisiti dalle tute blu nei decenni precedenti. Per molti, la busta paga è largamente inferiore a quanto necessario per condurre una vita ai livelli minimi di sussistenza. Il part-time, che copre il 17% delle situazioni lavorative, nel 54% delle ipotesi è svolto non per scelta ma per costrizione. Oltre al pericolo costante del licenziamento, magari via sms, ciò comporta la certezza di ricevere pensioni leggerissime. Se si vuole intendere l’entità della regressione di civiltà in corso, occorre registrare la compressione alquanto brutale del salario (6,2 milioni di lavoratori in un anno non raggranellano neppure 15 mila euro, il 62%, pari a 11 milioni, non arriva a 25 mila euro). Non meno esiziale è poi la restrizione dei cosiddetti salari indiretti (prestazioni sociali, servizi pubblici, sanità, formazione) e differiti (privatizzazione delle pensioni). Si lavora per più tempo in vista del raggiungimento delle quote contributive richieste (perciò il 40% degli attivi supera i 50 anni di età) e si va in pensione con un cedolino assai ristretto. Quando ci si interroga sulla crisi delle istituzioni democratiche, è anzitutto l’effetto sociale dello spirito nichilistico del capitale che bisognerebbe comprendere.
La riscossa di Landini è uno sprone alla rivitalizzazione della democrazia grazie alla ricostruzione del soggetto lavoro. Per questo si scaglia contro una legislazione di classe che, cancellando l’obbligo del reintegro, attribuisce all’azienda il potere del licenziamento illegittimo. La disciplina sull’indennizzo monetario sancisce con lo scudo della legge che chi dispone dei mezzi di produzione prevale, in virtù dei quattrini, nel contenzioso sulle pretese del corpo che fatica. La logica della disintermediazione trova così un perfetto compimento. L’assenza di riferimenti normativi adeguati all’accoglimento del criterio della maggiore rappresentatività delle organizzazioni nel momento della stipulazione dei contratti è l’altra arma che i governi hanno consegnato all’impresa. Il lavoratore subordinato viene richiamato nei ranghi con il ritorno al contratto individuale tra padrone e operaio assunto come singolo che negozia i propri interessi in veste di persona astratta. Tuttavia solamente il numero conferisce al lavoro quel plusvalore simbolico che consente di spostare la contesa sul piano dei rapporti di forza nella fabbrica e nella politica. La moltiplicazione delle sigle, utile per disarmare il sindacato, e la proliferazione delle tipologie contrattuali, tesa ad alterare con un trucco la natura dipendente del vincolo di subordinazione, hanno anch’esse delineato i rapporti di forza a vantaggio dell’impresa.
Dinanzi a indici di diseguaglianza che schizzano impazziti, con la redistribuzione rovesciata del reddito che dal lavoro va al capitale, su Repubblica N. Gennaioli e G. Tabellini si indignano poiché qualcuno ancora si ostina a non capire che “non siamo più divisi in classi, ma in identità culturali”. A sentire simili lamentazioni, l’urto dovrebbe essere indirizzato, al solito, non per respingere le radici delle disparità, ma per rimarcare la distanza valoriale tra i conservatori identitari e i progressisti multiculturali. Bene ha fatto invece la Cgil a proporre anche il quesito sulla cittadinanza, che in nessun modo è estrinseco rispetto alle rivendicazioni di classe racchiuse nelle altre questioni referendarie. È infatti in gioco il riconoscimento della voce di proletari iper-sfruttati i quali, proprio perché sprovvisti dei diritti dei cittadini, servono al padronato per evitare investimenti e calmierare ancor più i salari attraverso l’espediente della concorrenza indotta nei lavori marginali. Lo diceva già Marx. Il capitale cerca di “usufruire di operai stranieri come strumento per soffocare le giuste lagnanze dei lavoratori indigeni”. Contro questo eterno disegno, per lui, il rimedio era “sviluppare negli operai dei diversi paesi non soltanto il sentimento ma il fatto della loro fraternità e unirli per formare l’armata dell’emancipazione”. Confinare al di fuori delle mura della città gli immigrati significa fiaccare il fronte di classe e preservare l’attuale configurazione produttiva che porta al declino e alla lunga stagnazione.
Indagini recenti di Legacoop-Ipsos segnalano peraltro la totale alienazione che affiora quando il dispotismo regna nelle relazioni aziendali e le retribuzioni sono al di sotto della soglia di sussistenza. Il 47% degli intervistati avverte una estraneità rispetto al prodotto del ciclo lavorativo. Sempre il 47% percepisce il tempo di lavoro come una continua perdita di sé. E addirittura il 69% si dichiara esausto per la infima qualità e il grado di coazione inclusi nella prestazione. Meloni teme a ragion veduta le urne e invita al boicottaggio. Il suo governo, con un incremento appena dello 0,7% del Pil, è il vero campione della de-crescita infelice. La produttività lavorativa è scesa dell’1,4%, la produzione industriale è crollata di 4 punti. La destra segue l’imperativo dei bassi salari (2,5 milioni di addetti guadagnano meno di 9,5 euro l’ora, un terzo dei lavoratori privati racimola intorno a mille euro al mese) e proclama la resa all’inflazione (che è dell’11,6% in più a confronto degli aumenti stipendiali rilevati dal 2019 al 2024).
Nel triennio meloniano, l’esecutivo è apparso pienamente funzionale a quelle microimprese che si ribellano al salario minimo, non innovano e reputano il migrante un nemico così da poterlo meglio sfruttare come irregolare. La rivolta contro questo stato di cose passa pure dal referendum. Se la coalizione del lavoro prende un voto in più di quelli ottenuti dalla destra nel 2022 (12 milioni e 305 mila), allora comincia una liberazione politica che recupera lo spazio di una democrazia ridotta dal tardo-capitalismo trionfante a simulacro.
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