Caso Orbán, Meloni minimizza ma teme un malinteso con Usa e Europa

ROMA – Un imprevisto diplomatico con gli americani. E un altro con l’Europa. Gli attacchi a Bruxelles e Washington consegnati a Repubblica da Viktor Orbán si trasformano in poche ore in un fastidio politico per Giorgia Meloni. La preoccupazione che circola a Palazzo Chigi tra lunedì pomeriggio e martedì mattina, riferiscono infatti fonti meloniane di massimo livello, è che quegli affondi possano essere interpretati nelle principali cancellerie alleate come agevolati – se non addirittura in qualche modo concordati o favoriti – dall’esecutivo italiano. E poco importa se così non è, secondo le stesse fonti. Perché l’immagine pubblica del capo di un governo straniero che attacca durante una missione internazionale l’Unione europea, gli Stati Uniti e pure la stampa italiana - per di più a pochi minuti da un faccia a faccia nella sede istituzionale del Paese che ospita il summit - è un’anomalia che alimenta sospetti, dubbi, interpretazioni scomode tra partner.
Nelle ore successive parte dunque un’indagine rapida e informale. Roma raccoglie con discrezione gli elementi utili a ricostruire l’accaduto. Perché anche a Palazzo Chigi, a loro volta, faticano a credere che Orbán abbia deciso di concedere un’intervista per strada, davanti al portone del suo hotel, senza preavviso e senza nulla di concordato. È un dettaglio che Meloni preferisce conoscere, perché utile eventualmente a gestire l’incidente con gli interlocutori dei paesi amici finiti nel mirino del magiaro.
Fin qui, l’imbarazzo. A cui si accompagnano alcune indicazioni che lasciano intendere quanta freddezza Palazzo Chigi riservi all’accaduto: il viaggio di Orbán a Roma, sottolineano diverse fonti, è giustificato dall’incontro con Papa Leone XIV, non dal bilaterale con Meloni. E anzi, l’appendice politica nella sede dell’esecutivo, richiesta dal magiaro, ha rappresentato solo un atto di cortesia da parte del governo italiano.
La strategia pubblica di Meloni, invece, si riassume in una parola: minimizzare. E si nutre di silenzio. Non è dunque un caso che la presidente del Consiglio eviti di intervenire fino a sera contro l’amico “Viktor”, anche se glielo chiede con forza l’opposizione. Non commenta le dichiarazioni aspre contro l’Europa, rilasciate in uno dei paesi tradizionalmente più europeisti del continente. Né stigmatizza le critiche alla stampa italiana (Repubblica, ma il giorno prima anche Report). E lo stesso vale per i concetti riservati a Trump, grande alleato della premier: le parole dell’ungherese rimbalzano in un attimo fino a Washington.
Evitare di esporsi. Con imbarazzo, come detto. L’unico a parlare già lunedì pomeriggio, poco dopo l’intervista del magiaro a Repubblica e mentre è in corso il bilaterale con Meloni a Palazzo Chigi, è Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri riprende la parola anche ieri, di nuovo in perfetta solitudine. Lo fa per ricordare che la politica estera è appaltata alla Farnesina e a Meloni, non al tandem Orbán-Salvini.
È l’altro elemento saliente, il dettaglio che forse più irrita la premier. Perché peggio di un sospetto alleato sull’atteggiamento troppo accondiscendente dell’Italia su Orbán c’è soltanto l’idea che la linea di Palazzo Chigi possa essere in qualche modo dettata dall’alleato leghista. Che è spesso in conflitto con Bruxelles. E condivide con l’ungherese la vicinanza a Putin e l’ostilità politica verso l’Ucraina.
Per la premier, invece, è fondamentale che si sappia almeno una cosa: anche con il capo dell’Ungheria filoputiniana, il governo italiano ha sottolineato l’importanza di sostenere la causa ucraina, la necessità vitale dell’unità transatlantica tra Bruxelles e Washington e l’utilità di mettere pressione a Mosca attraverso le sanzioni, anche solo per accorciare la durata del conflitto. Tra le sanzioni, ci sono proprio quelle americane sul petrolio russo che Orbán avversa.
Tutto questo, però, non convince comunque Meloni a esporsi. Deve mantenersi in equilibrio, senza strappi e senza troppo clamore. Ecco perché la linea informale che trapela a sera riduce tutto a un ragionamento: è il solito Orbán, c’è poco da stupirsi. Il rischio è che oltreconfine non la pensino allo stesso modo.
La Repubblica




