Padri imperfetti e seconde occasioni: la lezione (rock) di Lillo al cinema

Un ex chitarrista rock caduto in disgrazia, bugiardo patologico, egoista e vanesio. Un padre fragile e scostante messo di fronte a quello specchio senza scampo che è lo sguardo di un figlio. Anzi, di una figlia. È la storia di Tutta colpa del rock, dal 28 agosto al cinema, una pellicola che è già stata presentata in anteprima al Giffoni Film Festival e in altri eventi lungo lo stivale. Un omaggio al potere salvifico della musica, tra situazioni surreali e incursioni tragicomiche, che accende una riflessione sulla paternità e un mondo adulto distratto, ma anche sulla necessità di ripensare il carcere come a un luogo da cui sia possibile ripartire.

Prodotto da Mattia Guerra, il film è una produzione Be Water Film e PiperFilm in collaborazione con Netflix. Bruno (interpretato da Lillo Petrolo), finito in carcere per una lunga serie di scelte sbagliate, si ritrova in una band con altri detenuti per partecipare al Roma Rock Contest. In palio, i soldi necessari per mantenere la promessa fatta alla figlia Tina: portarla in America per un leggendario “Rock Tour”. Al suo fianco, una formazione tanto improbabile quanto irresistibile: il coinquilino di cella Roberto (Maurizio Lastrico), il “Professore” cinico e silenzioso interpretato da Elio, una batterista dal carattere esplosivo (Agnese Claisse), il temutissimo Osso (Massimo Cagnina) e il trapper K-Bone (Naska, al suo esordio sul grande schermo). Tra scontri e legami inaspettati, la band troverà nella musica un’occasione di rinascita. A completare un cast che promette risate, Carolina Crescentini, Valerio Aprea e Massimo De Lorenzo. A dirigerli, c’è Andrea Jublin, che definisce i protagonisti «un’umanità allo sbando che abbiamo trattato con tutta la tenerezza e la comprensione possibile. Perché nessuno è immune dalla fragilità».
Un carcere che punta a diventare modello, il dialogo continuo dei detenuti con una direttrice in cerca di una scalata professionale, la rocambolesca evasione dalle celle. Il film propone immagini impensabili in un’estate nera per gli istituti di pena italiani, tra sovraffollamento, caldo estremo, suicidi e disordini. Perché scegliere oggi di ambientare una commedia in un carcere?
Abbiamo cercato un equilibrio fragile ma necessario: non rinunciare mai al sorriso, anche nel narrare la solitudine, l’illusione, la mancanza di prospettiva. Il carcere è un argomento molto delicato, per tutta la drammaticità a cui assistiamo oggi. Nella preparazione del film, abbiamo mantenuto una tensione costante a creare qualcosa di appena credibile e molto divertente, ma sempre rispettoso del luogo che stavamo raccontando. Non a caso nell’ultima stesura della sceneggiatura la figura del sovrintendente Santarosa ha assunto una connotazione così sfumata, tra la simpatia e l’eleganza, un personaggio buffo e inquietante insieme, una sorta di mentore che conduce Lillo (Bruno) tra le mura dell’istituto di pena. È sua la battuta che abbiamo voluto inserire pensando al sovraffollamento delle carceri italiane: «Spero la rassereni sapere che le è stata assegnata una delle celle più ambite. Momentaneamente accoglie solo due ospiti, un caso rarissimo vista la traboccante vitalità del nostro istituto».

C’è un altro elemento da aggiungere. Ogni commedia ha bisogno di un ambiente sullo sfondo che faccia emergere, negandolo, il cuore della vicenda. La nostra è una storia di rock e libertà: il carcere ci sembrava lo spazio perfetto per togliere, con una risata, un velo.
Se la finzione e la fantasia dominano molti elementi del racconto, nel ritratto dei padri c’è molta verità. Un dialogo in particolare arriva dritto a chiunque stia accanto a qualcuno che cresce. Tina nella stanza dei colloqui legge al papà un elenco di promesse disattese: «Tranquilla Tina, ci vengo al saggio di musica. Ti prometto che passiamo Halloween insieme. Ti insegno a fare i pancake. Tina, torno presto a trovarti». Perché è così dirompente quella scena?
È una scena che abbiamo provato, scritto e riscritto tante volte, una scena difficile che la protagonista (ha soli 10 anni) è stata bravissima a interpretare. Tina che tiene traccia delle mancanze del padre conduce lo spettatore alla domanda cruciale di tutto il film: riuscirà il protagonista a riannodare il rapporto con sua figlia? La scena speculare è quella in cui Tina vede Bruno vestito da rocker al concorso musicale e dice alla madre: “Vedi? È pazzo, ma non è bugiardo”. La dimostrazione che una relazione sana debba passare per l’onestà.

L’anima del film è la sua colonna sonora. In una società che sembra non lasciare spazio al bisogno di ascolto dei figli, la musica diventa mezzo di evasione e laboratorio di dialogo sincero. Bruno, il chitarrista leader della band, dice ai suoi compagni di avventura: «Il rock è fiducia, energia, speranza». Perché?
Il rock è libertà, profondità e ribellione, è la possibilità di superare o allontanarsi dalle imposizioni anche soltanto per il tempo di una canzone.

Un brano inedito attraversa l’intera pellicola. Nel ritornello, un verso ha il sapore di un invito: “Tu non sai nemmeno che esisto, ma insisto e resisto”. A chi è rivolto?
Ricordo perfettamente l’incontro con i musicisti che hanno scritto il brano (Nato nel posto sbagliato è interpretato da Naska e unisce le sonorità di Motta, Cor Veleno e Danno): ci interrogavamo su come dovesse essere questa canzone. Il risultato è un grido di protesta e disperazione mista a speranza: appartiene a chi sta in un luogo chiuso, un carcere reale o metaforico, ed è rivolto a chi, fuori, non si accorge dell’esistenza di un dentro che gli sta accanto.
Le fotografie sono di Ufficio stampa Tutta colpa del rock
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