La morte in diretta di Jean Pormanove è un presente distopico: fin dove è giusto spingerci per piacere all’algoritmo?

La tragedia che ha coinvolto Raphaël Graven, 46 anni, conosciuto online come “Jean Pormanove”, è l’ennesimo campanello d’allarme di un sistema in cui l’ossessione per like, consensi e visualizzazioni divora tanti, troppi aspetti dell’esistenza umana. Dalla dignità alla salute, fino alla vita stessa.
“Pormanove” è morto nella notte tra il 17 e il 18 agosto, durante una diretta sulla piattaforma Kick e, soprattutto, dopo giorni di riprese in cui veniva umiliato e maltrattato davanti a migliaia di spettatori. La procura di Nizza ha aperto un’inchiesta e disposto l’autopsia, mentre il governo francese ha chiesto conto alla piattaforma, che si è dichiarata disponibile alla piena collaborazione con le indagini e ha annunciato provvedimenti contro i co-streamer coinvolti. La ministra francese delegata per l’IA e il Digitale Clara Chappaz, ha definito “un orrore assoluto” ciò che è andato in scena. Dettagli, compresa la durata della live, vicina alle 300 ore, sono ancora oggetto di accertamenti, ma una cosa è sicura: la morte è accaduta, in diretta, sotto gli occhi di tutti.
Secondo gli atti iniziali d’indagine, Graven appariva regolarmente in video - peraltro seguitissimo da un folto pubblico di fedeli - dove subiva violenze fisiche e umiliazioni orchestrate da altri streamer. I legali di alcuni di loro sostengono che molte di queste “torture” fossero solo delle “messe in scena”. Sarà la magistratura a stabilire quanto ci fosse di spettacolo e quanto di effettiva coercizione, ma la linea di confine tra performance e abuso è ormai già stata calpestata – e abbondantemente superata – quando Graven ha smesso di respirare.
E la diretta è andata avanti fino a mostrare un corpo senza vita, come un drammatico “The show must go on” privo di un qualsivoglia senso, eccezion fatta per la ricerca di attenzione ad ogni costo. Intanto le autorità hanno sequestrato le attrezzature ed il caso è finito sui tavoli dell’Arcom (il regolatore audiovisivo) e sulla piattaforma pubblica di segnalazione Pharos. Controlli e interventi decisamente tardivi, che mostrano l’assenza di una prevenzione efficace.
Non è la prima voltaAnche perché non è la prima volta che il live streaming diventa un acceleratore di violenza reale. Siamo nel 2017 quando a Phuket un uomo ha impiccato in diretta Facebook la piccola Beta, la figlia di appena undici mesi, e il video è rimasto online per ore prima di essere rimosso. Nel 2022, stavolta a Memphis, un diciannovenne ha girato la città sparando casualmente e uccidendo quattro persone, trasmettendo il tutto su Facebook Live; a Buffalo, sempre nel 2022, il diciottenne suprematista Payton Gendron ha ucciso dieci persone afroamericane in un supermercato, trasmettendo su Twitch: lo stream è stato interrotto in circa due minuti, ma le copie hanno continuato a circolare per giorni.
Nell’agosto 2023, stavolta in Bosnia, Nermin Sulejmanovic ha ucciso l’ex compagna in diretta Instagram – di fronte al loro bimbo di nove mesi - scatenando proteste di piazza contro la violenza domestica. Ogni volta la stessa liturgia: shock, rimozioni a posteriori, solidarietà, promesse di miglioramento, e intanto altri live si preparano a replicare lo stesso copione di morte. È di pochi mesi fa, più precisamente di maggio 2025, la notizia della tiktoker messicana Valeria Márquez che è stata uccisa a colpi di pistola nel suo salone di bellezza a Zapopan, mentre era in live… l’indagine procede con l’ipotesi di femminicidio. Poche settimane dopo, a Maracay in Venezuela, il creatore Gabriel Sarmiento è stato assassinato durante una diretta su TikTok. Poco prima di morire aveva denunciato nomi e crimini di alcune bande locali. Storie apparentemente lontane, ma con un drammatico, comune denominatore: l’architettura dell’attenzione che trasforma la vita, e la morte, in un flusso monetizzabile, condivisibile, replicabile.
E non c’è solo la violenza agita. In Italia, nel 2019, due uomini che pochi minuti prima si erano esibiti in una diretta Facebook mostrando il tachimetro a 220 km/h, sono morti sull’A1 travolti dopo essere scesi dall’auto schiantata. L’algoritmo non ti mette il piede sull’acceleratore, ma ti suggerisce senza sosta che “più estremo è, meglio arriva”.
Le responsabilitàLa tentazione di ridurre tutto alla “colpa delle piattaforme”, dunque, è forte, ma non è del tutto vero. Se le piattaforme hanno responsabilità legali e morali precise – e in Europa esistono strumenti per farle valere, dal Digital Services Act (DSA), pienamente applicabile dal 17 febbraio 2024, che impone obblighi stringenti di gestione dei rischi sistemici, trasparenza, risposta rapida e audit indipendenti soprattutto per le piattaforme di grandi dimensioni – anche le autorità nazionali sono dotate di leve operative e di coordinamento, come dimostra il coinvolgimento dell’Arcom in Francia. Strumenti che però funzionano solo se usati con continuità e con sanzioni esemplari quando serve, non a tragedia avvenuta.
Ciò che uccide è l’architettura che incentiva lo “spingere oltre”. Il live estremo premia il tempo di visione; l’algoritmo spinge ciò che trattiene; la community, una parte rumorosa, almeno, paga, applaude, incoraggia. Gli studi e i rapporti su Buffalo lo hanno detto chiaro: il live streaming può essere “arma” di radicalizzazione e megafono di violenze che cercano platea. È lo stesso meccanismo che, spostato dal terrorismo al degrado spettacolarizzato, rende redditizie le “sfide” che umiliano e feriscono. Arrivati a questo punto il rito collettivo non è neutro e il pubblico non è “semplice spettatore”, piuttosto parte della filiera.
Smettere di cliccare non è un gesto simbolico, è un’azione concreta, perché riduce reach e pressione algoritmica. Segnalare tempestivamente significa cura della sfera pubblica, ma soprattutto cura del prossimo. Da parte dei creator niente sfide a rischio biologico, niente “umiliazioni consensuali” spacciate per intrattenimento, niente live-marathon che trasformano la deprivazione fisiologica in spettacolo. E i brand? Finché i soldi della pubblicità scorrono indistinti, tutto resta possibile. La morte di Jean Pormanove riguarda tutti, perché racconta un’epoca che abbiamo contribuito a costruire. Chi progetta piattaforme, chi produce contenuti, chi guarda, chi regola. Se continueremo a chiamare “contenuto” ciò che inquadra l’agonia di una persona, avremo normalizzato l’irraccontabile.
Luce