La corrida, come il cinema, ci espone al mistero della natura indifferente

FOTO Ansa
quelli del toro
Un’eccezione culturale di cui da noi si comprende ben poco. È solo uno spettacolo da abolire “in nome della civiltà”, una “tortura legalizzata”. Ma, irriducibile a mero intrattenimento, la tauromachia è un rito che unisce ragione e mito, e dà dignità al sacrificio. Da osservare, non da capire
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In Italia, si sa, raccoglie unanimità di dissenso. Non è così in Spagna, dove da anni ci si divide tra tradizione ed etica contemporanea, terreno di scontro istituzionale e identitario, dove in base a una legge di stato del 2013 è tutelata come patrimonio culturale nazionale. In barba alle posizioni Unesco, che non la prevedono nella lista dei beni immateriali da salvaguardare (nel 2023 la richiesta di inclusione è stata rigettata, non per questioni etiche, ma per un vizio tecnico formale nella procedura). “Sempre meno gente va a ver los toros”, si sente dire spesso (anche dal ministro della Cultura spagnolo Urtasun), in Italia poi si pensa sia solo, ormai, archeologia dell’incultura. Ma i recenti dati delle indagini sui costumi e consumi del paese iberico dicono qualcosa di molto diverso. L’affluenza nelle arene sta tornando ai livelli pre pandemia con una rinnovata popolarità, sembra addirittura che la perdita di spettatori anziani venga compensata da nuovi aficionados nella fascia tra i 15 e i 24 anni. In edicola c’è addirittura una collezione di figurine di tori, ganaderias e toreri in corso.
Curioso fenomeno per un rito barbaro e ancestrale. Solo nella comunità di Madrid, e nell’arena più grande e importante, quella de Las Ventas, nell’anno in corso è passato un milione di spettatori, 18 su 62 corride hanno registrato il sold out, cinque faenas hanno aperto la Puerta Grande (quando il torero viene portato fuori dall’anfiteatro in trionfo sulle spalle degli aficionados). Con un incasso stimato di oltre 40 milioni di euro, e l’Erario spagnolo ne fa, di IVA, oltre 4. Ovviamente la questione è anche strumentalmente politica, con una piega del dibattito che riguarda i finanziamenti pubblici per il comparto taurino, gli allevatori e tutta l’economia rurale collegata. Nei giorni scorsi una legge di iniziativa popolare per l’abolizione delle sovvenzioni è stata nuovamente bocciata dal Congresso con ampia maggioranza. La polemica rimane però accesa, in tensione con un’altra legge di stato, la Ley sul benessere animale del 2022, che stabilisce che gli animali non sono beni mobili (al pari di cose come un quadro o una poltrona, come ancora nel codice civile italiano, ad esempio) ma esseri senzienti dotati di sensibilità, soggetti di diritto che non possono essere abbandonati, sequestrati né separati dai loro proprietari in caso di divorzio. Per il momento i tori de lidia – e i cani da caccia – sono in una Zona di Contraddizione (o ipocrisia) Temporanea, in futuro si vedrà.
Ma nelle prime pagine di questi giorni il segno del toro è tornato per altri motivi. Il 12 ottobre, nel giorno della Hispanidad e davanti a 24 mila spettatori, Morante de la Puebla, grandissimo trionfatore della stagione, l’ha chiusa con un gesto eclatante e leggendario, un clamoroso colpo di teatro: dopo essere stato colpito e atterrato da un toro, si è ripreso, dolente e sanguinante, per eseguire una faena magistrale, di emozione controllata e classica eleganza, ha ricevuto due trofei nell’ovazione unanime del pubblico e, assolutamente a sorpresa, è andato al centro dell’arena in lacrime, per tagliarsi lentamente la coleta, gesto che significa la ritirata dalle arene. Se ne va “el último exponente que encarnaba la Tauromaquia en su sentido más integral, como compendio de arte, pensamiento y emoción”.
Di quella eccezione culturale però qui da noi si comprende ben poco, del fantasma di un’identità che sfida il tempo e la coscienza poco si vuol sapere. La tauromachia è una questione che evidentemente non merita complessità, partita risolta per manifesta inferiorità, sancita “dalle ragioni del progresso” emancipato. E’ solo uno spettacolo da abolire “in nome della civiltà”, “tortura legalizzata”, “mattatoio a cielo aperto” et alius index atrocitatum. Ci si consola all’unanimità sullo spettacolo esiziale e insostenibile, reliquia brutale che non parlerebbe al nostro tempo. O forse più modestamente alla nostra sensibilità, forgiata in una stagione scandita da logiche prepolitiche, tra tribù e idioletti vari. La rimozione della morte dalla scena pubblica, dei riti collettivi di passaggio, del tempo non eternamente reversibile, hanno reso oscena (ciò che non si può mostrare) una liturgia che ci ricorda qualcosa di imminente e senza parole, una matrice mediterranea di sacralità perduta, un’arte laica effimera e irripetibile.
Che l’arena sia un rifugio di emozioni arcaiche è peraltro probabile, spazio senza progresso possibile che suscita anche negli aficionados una malinconia profonda e misteriosa. Una forma di nostalgia di una verità senza oggetto, di un tempo in cui la cura per la natura implicava il riconoscimento del rischio e del sacrificio come insopprimibili elementi della vita e dell’arte. Perché anche quando è vuota e senza spettatori quell’architettura mette al centro il valore della presenza e l’accettazione della finitudine, indica un limite tra il silenzio delle cose, la bellezza (del toro) e la nobiltà (del toro), la ferinità e il sacrificio. Metterla sul piano dello spettacolo (cruento), del teatro (della crudeltà), dell’agone (selvaggio) è un modo per non capire nulla. E’ un dispositivo di attenzione, la corrida, irriducibile alle regole dell’intrattenimento o del turismo. Bisogna esserci (stati) per capire qualcosa. “Existe una identidad entre el amor y el arte, en ninguno de los dos cabe la voluntad” (Juan Belmonte) Non c’è proprio niente da capire in una plaza de toros. Si guarda, si resta, si attende.
Un apprendistato del dubbio. Solo osservare, prestare tempo e attenzione (per ricevere in cambio esperienza), per dei gesti assoluti e inutili, in cui la morte si lascia guardare senza maschere, senza redenzione. Perché le uniche cose che forse contano e ci riguardano in una corrida, ciò che interessa e da cui siamo interessati, sono i temi della verità e della morte. E in questi giorni, in qualche coraggiosa sala cinematografica italiana, c’è una occasione davvero preziosa per provare a esercitare una presenza di sguardo senza pregiudizi su qualcosa di luminosamente osceno. Mica per imparare qualcosa sulla tauromachia, semmai per esporsi al turbamento, essere interrogati da qualcosa di enigmatico, di irreversibile. Così come Morte nel pomeriggio non è un manuale di tauromachia per appassionati (“quell’anno che tutti bevvero tanto e nessuno fu cattivo. C’è stato davvero un anno simile …”), “Tardes de soledad” di Albert Serra (Concha de oro a San Sebastian), non è un documentario su un grande torero.
Il peruviano Andrés Roca Rey – tra i più carismatici della sua generazione, celebrato e discusso per coraggio estremo, capacità di emozionare per la sua presenza scenica, per la fermezza davanti al toro (la misura del temple, che è controllo del gesto e del ritmo, e della quietud, la serena compostezza del corpo esposto al pericolo –, non è né un eroe né una vittima, solo portatore della solitudine del rischio, tra abbandono e raccoglimento, nell’offrire allo spettatore uno sguardo sulla cruda verità delle immagini, la materialità dei corpi, l’arte e la morte al lavoro. Quello di Serra è un documentario che non insegna nulla, non dimostra nulla. “L’unico modo per essere curiosi è essere continuamente innocenti”, una dichiarazione di poetica di chi si muove nel campo libero e libertino (affrancato dalla schiavitù del significato) del cinema in purezza. Per cui ogni immagine fotografica è la registrazione di una morte nel corso del tempo, da un lato calco del reale, dall’altro tentativo di sottrarre la fisicità del mondo alla caducità del tempo, trattenere qualche traccia dall’erosione del divenire.
“La corrida non è uno spettacolo, è qualcosa di trascendente e poetico”: Serra non è un aficionado, ma solo un artista contemporaneo.
Si avvicina in modo dubitativo a una forma d’arte che unisce ragione e mito, crudeltà e sublimazione. Sa che, senza il rischio di morte del torero, il sacrificio dell’animale sarebbe ingiustificabile, forse infilmabile. Senza prendere posizione, lascia solo lo spettatore nell’eventuale turbamento etico o estetico. Perché la tauromachia, come il cinema, ci espone al mistero della natura indifferente, è una forma di vita ridotta all’essenziale, incarna emozioni che sono normalmente incompatibili, crea bellezza dalla paura, in una verità istantanea e irreversibile. Due anni di riprese nelle arene di Madrid, Siviglia, Bilbao, Santander, ottocento ore di girato per due ore di film: Serra sguinzaglia operatori dotati di teleobiettivo e fonici di presa diretta a registrare respiri e bestemmie, commenti e indicazioni dei peones, il mozo de escuadra e i banderilleros, in uno spazio chiuso e senza aria, senza pubblico. L’occhio del regista è nell’arena, uno sguardo in attesa, permette allo spettatore di vedere ciò che dal vivo è invisibile, isolati in un corpo a corpo con toro e torero in un mondo a parte.
E lo spettatore entra in apnea, in un’immersione sonora che ha a che fare con le installazioni artistiche, non con i canoni del cinema del reale. Un invito a chiudere gli occhi per vedere meglio ciò che resta del cinema, sentire il tempo che scorre, corpi che si consumano, in una danza tragica senza fine. In equilibrio costante tra ironia e spiritualità, il montaggio è discontinuo, il gesto e le movenze del torero non sono mai fluide e costanti, ma decostruite, sincopate in immagini dense dal movimento interno. Il cinema è una questione di inquadrature, non di immagini.
Il film emerge dal buio di un corral, in cui un toro sovrano come la notte guarda in camera, respira regolare e inquietante, inconsapevole di ciò che arriverà con la luce. Poi entra in campo il torero con il mozo, con la cerimonia della vestizione nello stretto traje de luces, seguito da un viaggio notturno nel silenzio di un mini van. Il torero chiede di spegnere la luce della vettura, ma gli dicono che non si può, la luce non può essere spenta. Ascoltiamo borbottii sulla grandezza della faena, l’incoraggiamento dei peones, il torero non risponde, neanche ascolta, lo sguardo perso in un altrove, in una dimensione ossessiva e quasi metafisica, come installato in uno spazio appena lasciato a cui si torna, in una circolarità allucinatoria senza tempo. Focali lunghissime per una danza di corpi e muscoli, musi e corna e mani e caviglie, in una materialità così fisica da diventare astratta, le figure schiacciate in una dimensione intima, senza fondo.
“Se vuoi toreare bene devi dimenticarti del corpo”, diceva negli anni Trenta il grande rivoluzionario del toreo moderno Juan Belmonte. Il film amplifica questo oblio, unico flusso di precisione geometrica e automatismo istintivo: concentrazione estrema e percezione alterata nello spazio liminale che è la faena di un torero, in cui il tempo sembra rallentare. In tutto il film Roca Rey è impenetrabile, chiuso in se stesso e puro presente, un enigma di figure codificate e improvvisazione, in un gioco di specchi che è così tipico della corrida, così straordinario: man mano che la faena avanza le espressioni del torero diventano quelle di un animale in trance, mentre il toro si va via via umanizzando. “La vérité est composée de détails”, scriveva Stendhal. Il film somiglia a una partitura musicale con cadenza ostinata, ripetizione ossessiva dello stesso motivo dello scontro tra uomo e animale, senza un vero crescendo o progressione drammatica: un montaggio di attrazioni senza sviluppo, immagini densissime con poche variazioni e tanto sangue (e sabbia e saliva e sudore), la rara crudezza di uno sguardo innocente e amorale. Serra mostra ciò che solitamente non si guarda (e soprattutto non produce godimento), lo strazio e l’agonia del toro, i sussulti, il sentire la terra per l’ultima volta. Non celebra affatto la violenza del gesto ma ne registra l’essenza tragica, senza empatia né proiezione: si rende manifesto ciò che non può essere mostrato.
Il regista non è complice dello spettatore, né del protagonista. Sembra che Roca Rey non abbia gradito alcuni aspetti del montaggio finale, forse poco celebrativi della sua messa in scena. Ma nella costellazione poetica di Serra (“il documentario deve tradire il suo oggetto”), una morale del tradimento diventa una forma di igiene per un genere spesso associato alla ricerca di una ipotetica verità. “Non farsi piegare dalle idee ma partire dalle immagini che si hanno”: una poetica della conoscenza accidentale. Che intende il cinema come assunzione di un rischio talvolta mortale, esposizione volontaria al pericolo dell’imprevedibile o intravisto, in cui la lotta è necessaria e gli esiti ineluttabili, in dialogo e in scontro tra ciò che è scritto e ciò che accade. E allora diventa evidente la logica di questo falso documentario intorno alla verità e la morte (anche delle immagini, del cinema stesso). Come nelle riflessioni sulla “musica callada” di José Bergamín, della Generazione del ‘27, in cui la tauromachia è una forma di arte rituale, esperienza vicina alla poesia e alla meditazione, in cui è il ritmo dei gesti e dei passi e dei silenzi a tessere un dialogo muto tra torero e toro. Una musica interiore che non si ascolta ma si percepisce, in una solitudine radicale.
Il film è anche un esercizio di timore e tremore, di umiltà. L’azione del torero è portare il toro ad abbassare il capo verso il basso seguendo il movimento della muleta, humillar, perché ciò permette di eseguire una faena ampia e armoniosa. Sembrerà paradossale, ma un toro che attacca a testa bassa, con profondità, un toro che humilla non è affatto umiliato, non è docile, è un toro bravo e nobile. Un invito a ricordare qualcosa di rimosso nelle nostre società, cioè che avere cura e prestare attenzione alla natura, avere rispetto e forse venerazione per gli animali, richiede la celebrazione di un rito che dia dignità al sacrificio (i tori hanno un nome e una genealogia, non vengono abbattuti nell’anonimato dei mattatoi come i simili di cui ci cibiamo, senza darlo troppo a vedere) e la messa in gioco di sé. Per il resto, non c’è proprio niente da capire. Si guarda, si resta, si attende.
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