La Biennale di Taipei esplora la nostalgia

Cosa accomuna un burattino, un diario e una bicicletta? Questi tre oggetti costituiscono il nucleo concettuale della 14ª Biennale di Taipei, «Whispers on the Horizon». Il burattino di Li Tian-lu, il diario «My Kid Brother Kang Hsiung» di Chen Yingzhen e la bicicletta di «The Stolen Bicycle» di Wu Ming-Yi, pur non essendo fisicamente presenti in mostra, ne attraversano lo spirito. “Ognuno, pur nella sua semplicità — legno, carta, metallo — racchiude un mondo di desideri e memorie: il burattino evoca le voci silenziate dell’epoca coloniale, il diario una nostalgia utopica che si spezza, la bicicletta una storia di migrazioni e perdite umane, una tensione verso ciò che sfugge e resta assente anche quando lo si insegue” spiegano i curatori Sam Bardaouil e Till Fellrath. Direttori dell’Hamburger Bahnhof – National Gallery of Contemporary Art di Berlino, i due curatori non hanno costruito la Biennale attorno a un tema, ma a un concetto difficile da rendere in italiano con una sola parola: in inglese, yearning, ovvero “un desiderio profondo e forse irraggiungibile, espressione di una tensione”.
La mostra, allestita al Taipei Fine Arts Museum, presenta i lavori di 54 artisti provenienti da 35 città, tra cui 33 opere inedite e installazioni site-specific. Tra i partecipanti figurano anche due italiani, Monia Ben Hamouda (Milano, 1991) e Jacopo Benassi (La Spezia, 1970): due artisti di generazioni diverse che rappresentano, nella scelta dei curatori, la crescente attenzione internazionale verso autori capaci — ciascuno a suo modo — di portare avanti una ricerca ormai riconosciuta sulla scena globale. Il dialogo con i curatori prende avvio dalla complessa storia di Taiwan: coloniale, politica e legata all’identità.
In che modo ha inciso sulla selezione delle opere e sulle narrazioni della mostra?Taiwan è un’isola dove le storie si intrecciano: colonizzazione giapponese, legge marziale, democratizzazione e migrazioni. Questa complessità non fa da sfondo, ma modella il modo in cui gli artisti riflettono su desiderio, identità e appartenenza. Anche la Biennale nasce da qui: non per raccontare una storia unica ma per mostrare quanto le narrazioni possano essere frammentate e contraddittorie. Alcuni artisti, come Ho Yen Yen e Musquiqui Chihying, riportano alla luce storie dimenticate e oggetti riscritti dal potere; altri, come Skyler Chen e Zih-Yan Ciou, reinterpretano l’era della legge marziale e l’eredità coloniale. Insieme, le loro opere rivelano che la storia di Taiwan non è marginale, ma parte integrante delle questioni globali di identità, memoria e desiderio.
Quali criteri avete utilizzato per selezionare gli artisti? Abbiamo cercato risonanze più che criteri tradizionali, chiedendo a ogni artista: di cosa hai nostalgia? Le risposte, soprattutto attraverso le opere, spaziano dai gesti intimi ai rituali collettivi, dalle finzioni speculative agli atti di riparazione. La Biennale raccoglie voci di diverse generazioni e geografie — da Taiwan al Guatemala, dal Libano alla Corea — e diversi media: suono, film, pittura, scultura, installazione e performance. Ciò che li unisce non è lo stile o la nazionalità ma l’urgenza della nostalgia, che si traduce in desiderio di giustizia, memoria, completezza o futuri da immaginare.
Cosa accomuna gli artisti? Ciò che accomuna gli artisti non è lo stile, ma una condizione: l’irrisolto, l’incompleto, il fragile. Alcuni lavorano con frammenti — ceramiche riassemblate da Yeesookyung, immagini d’archivio distorte di Jeremy Shaw, resti scheletrici digitali di Simon Dybbroe Møller — altri con rituali e cura, come le pietre luminose di Edgar Calel o i giardini della memoria di Fatma Abdulhadi.
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