Evocato, rinverdito e tirato per il saio, di san Francesco ognuno ha la sua versione. E quello vero scompare

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Alla vigilia degli ottocento anni dalla sua nascita in cielo, il santo è protagonista di una sfilza di nuove pubblicazioni. Ma la lettura del suo rapporto tra creature e creatore non può prescindere dall'idea che per Francesco tutte le cose non erano altro che "una scala per salire e afferrare" Dio
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Spesso chi ne parla pensa a un san Francesco secondo lui. Se il poverello di Assisi disse che gli bastava un solo saio, considerando quanti l’hanno tirato di qua e di là, l’umile abito del patrono d’Italia dovrebbe essere ridotto a brandelli di cui ognuno rivendica l’originale. Alla vigilia degli ottocento anni dalla sua nascita in cielo, il santo è più evocato che invocato in molteplici versioni di Franceschi. Mentre è stata ripristinata la festa nazionale del 4 ottobre, e la premier Giorgia Meloni gli ha reso omaggio con la visita ad Assisi, a destra, al centro e a sinistra ciascuno riconosce nel santo qualcosa dei propri ideali. Religiosi ma non sempre, pure secolarizzati: un paradosso per il mistico padre dei frati minori che non trascorse un giorno, dalla conversione all’ultimo respiro, senza rivivere la Passione di Cristo con la massima incandescenza emotiva, spirituale e corporea. Al punto di manifestarla con le stimmate, il primo nella storia con le cinque piaghe di Gesù crocifisso. Una dissonanza cognitiva che gli ammiratori non credenti di Francesco risolvono ammirandolo per altri aspetti: l’umile che baciò il lebbroso e predicava agli uccellini, che esaltò la solidarietà e la tutela dell’ambiente, dialogò (per così dire) con il sultano musulmano, aprì a Chiara e alle donne le porte della sua fraternità e compose il toccante Cantico di Frate Sole ovvero Cantico delle Creature. Già così è tanta roba che dalle stimmate, magari, ci si distrae per non verticalizzare: molti ritengono, qualcuno apertamente, che l’aspetto trascendente sia un “di più” medievale gradito alle frange sempliciotte dei cattolici (con buona pace del contemporaneo stigmatizzato san Pio da Pietrelcina).
Sarà dunque per l’approssimarsi dell’ottocentesimo anniversario nel 2026, sarà perché il pontefice che ha portato per primo il suo nome lo ha rinverdito, sarà il bisogno di pace che si fa più urgente quanto più cruente e vicine sono le guerre, il beatissimo padre dei frati minori è protagonista di una sfilza di nuove pubblicazioni. C’è lo storico Giulio Busi con Il Cantico dell’umiltà per Mondadori; c’è per Laterza il San Francesco di Alessandro Barbero, gran ritorno alla specializzazione accademica di una star dell’affabulazione orale che spazia in conferenza dalla prima guerra d’indipendenza al delitto Matteotti; c’è Aldo Cazzullo con San Francesco il primo italiano per HarperCollins; c’è padre Enzo Fortunato, portavoce per un quarto di secolo della basilica di Assisi, con l’appena uscito E se tornasse Francesco? per San Paolo Edizioni. Qualche altro titolo ci sfuggirà, ma i succitati sono sufficienti a occupare un decimetro nello scaffale delle opere divulgative sul patrono nazionale. Né erano mancati, nel passato più recente, altri testi come quello del cappuccino predicatore emerito della Casa Pontificia, Raniero Cantalamessa, nominato cardinale da Papa Francesco, o i classici degli insigni medievisti Jacques Le Goff e Franco Cardini, oppure volumi in controtendenza come il San Francesco di Cristina Siccardi del 2019 (SugarCo), che già nel sottotitolo (“una delle figure più deformate della storia”) esplicitava il taglio.
S’assomigliano questi Franceschi? Sì e no, o si somigliano ma non sempre si pigliano. Già le prime biografie, come le due firmate da Tommaso da Celano e la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio del 1260, si potevano integrare ma non sovrapporre (Barbero lo spiega con uno specchietto sinottico). Figurarsi dopo, nel corso dei secoli e degli ultimi in particolare. Figuriamoci adesso: persino laddove tutti convengono bisogna leggere con attenzione. Francesco è stato sì il primo italiano nell’accezione precisata da Cazzullo, ossia di “un’adesione spirituale”, di “un moto dell’anima”; primo come “figura fondamentale, anzi fondativa, della nostra identità”. E lo è stato perché – pure la premier lo ricordò ad Assisi – fu il primo a scrivere in volgare italico componendo il celeberrimo Cantico. Ma anche sul senso di questa poesia c’è da riflettere: Francesco “non era”, affermò Benedetto XVI, “un trovatore sognante o un ecologista”.
Soccorre sempre, per santi e fanti, la rilettura diretta dell’autore, il quale fu ben lungi dal panteismo o da un ambientalismo orizzontale ma attribuì al Signore ogni lode per le bellezze naturali e persino per “sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skampare”. Barbero, come già Cardini, ha ricordato che lo spirito del Cantico “non nasceva da un’inesistente sensibilità ambientale ed ecologista ma dalla necessità di riaffermare la bontà di Dio e del creato di fronte ai catari”. Il primo scorcio del tredicesimo secolo fu insanguinato dalla repressione di questa eresia gnostica contro cui papa Innocenzo III, lo stesso che approvò la prima Regola francescana, indisse una crociata giunta a conclusione solo dopo parecchi anni con l’annientamento degli albigesi (qualcuno addirittura l’ha classificato un “genocidio ideologico”, cui presero parte gli agguerriti domenicani). E’ in quel clima che il santo inculcò incessantemente nei suoi frati l’obbedienza incondizionata alla Chiesa, anche quando Roma chiamava alle armi i monarchi sotto pena di scomunica. L’uomo di pace non vi si oppose mai, ma s’aggregò con l’arma della carità alla quinta crociata e riuscì a incontrare il su ltano Melek-el-Kamel in Egitto nel 1219, mosso da inappagata voglia di martirio e dalla volontà di convertirlo. Secondo san Bonaventura tentò di diffondere “la fede nella Trinità”, per altri gettò il seme del futuro dialogo interreligioso. Certo è che a seguito di questo e di altri episodi emblematici, rileva Barbero, il santo finì per diventare “un personaggio dell’immaginario collettivo” “che può essere invocato come il precursore di tante buone cause, dal pacifismo all’animalismo all’ambientalismo (e in altri tempi, prima di tutti questi nuovi ismi, perfino del fascismo), senza che questo sia necessariamente riconducibile alla realtà storica di Francesco”.
Anche nell’accettazione della futura santa Chiara, e delle “povere signore”, i posteri hanno scorto segni di protofemminismo. Cazzullo nota che le accolse “con pari dignità” perché “le donne fin dall’inizio fanno parte del disegno di Francesco e del suo movimento spirituale”. Se però sfogliamo la Vita seconda di Tommaso da Celano, vi troviamo che “le donne gli erano così moleste, da far credere che si trattasse non di cautela o di esempio, ma di paura o di orrore. Quando la loro loquacità importuna dava origine a contesa, induceva al silenzio con un parlare breve ed umile e il volto a terra. Altre volte fissava gli occhi al cielo, quasi volesse ricavarne ciò che avrebbe risposto a quelle cicale mondane. Quelle invece, che avevano reso il loro animo dimora della sapienza con una santa e perseverante devozione, le istruiva con meravigliosi, ma brevi discorsi”. Chiara e le altre furono dunque tra le eccezioni alla regola, o forse siamo noi che ci smarriamo tra cumuli di pagine assortite senza sapere cosa convinca di più.
Francesco fu per certo stracolmo d’amore, un uomo che provava, osserva Tommaso, “compassione per i poveri e invidia per i più poveri di lui”. Buonissimo ma non buonista, sapeva dimostrarsi intransigente per esempio castigando un frate perché aveva raccolto del denaro trovato per terra. Non tutti si potevano adattare a quel veemente rigore, sicché la Regola francescana già venne ammorbidita nel 1221, l’anno dopo che lui, “minimo tra i minori”, aveva ceduto la guida dell’Ordine al primo successore Pietro Cattani. A dispetto di una figura che abita il nostro immaginario come epitome della dolcezza, sin dalle scuole elementari, il santo si mostrò inflessibile pure sulla dottrina, malgrado si preferisca ricordarlo ammansire il lupo di Gubbio anziché riesumarne gli aspri richiami ai rischi dell’inferno, di cui attualmente s’adombra l’inesistenza o si presume e spera la vuotezza (ma più spesso se ne omette la menzione). Proprio nel Cantico ammoniva: “Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali”. E nella Lettera ai reggitori dei popoli il frate “piccolo e spregevole” sentenziò: “Tutti coloro che dimenticano il Signore e si allontanano dai suoi comandamenti, sono maledetti e saranno dimenticati da lui”, “e quanto più sapienti e potenti saranno stati in questo mondo, tanto maggiori tormenti patiranno nell’inferno”.
Cazzullo compara l’abbandono dei beni materiali e la ricerca ascetica di Francesco alla vicenda del principe Siddharta, il Buddha storico, ma per rigidità delle pratiche, per comune inclinazione poetica e contiguità cronologica potremmo pure rapportarlo al santo tibetano Milarepa morto nel 1123 (Francesco nacque nel 1181 o nell’82), capace di resistere alle temperature himalayane grazie all’ardore psicofisico autogenerato. Allo stesso modo il frate italico sopportò i rigori invernali delle contrade umbre dove camminando gli si formavano i ghiaccioli sulla tonaca, anche se un giorno s’immerse nudo nella neve per fugare una cocciuta tentazione carnale. Qui si fermano le analogie, alle soglie di religioni che sarebbe incongruo accostare; se Milarepa confidava nelle pratiche yogiche lui s’affidava alle preghiere, prediligendo tra tutte il Pater Noster: le Fonti Francescane ne hanno tramandato una “Orazione” in cui si glossa, naturalmente, anche il discusso verso “et ne nos inducas in tentationem” che la Chiesa ha modificato nel 2020.
Chissà in quale dei suoi innumerevoli ritratti cartacei (e pittorici e cinematografici) il santo si riconoscerebbe se potesse tornare, come nel provocatorio titolo del libro di padre Fortunato. “Mi chiedo piuttosto quanto noi saremmo pronti a riconoscerlo e ad accoglierlo se per esempio si presentasse nelle lacere vesti di un barbone, come quando da più povero dei poveri veniva scacciato” risponde il francescano, che dedica alla figura del santo anche rubriche radiotelevisive e dirige la rivista mensile “Piazza San Pietro”. “E’ buona, bella e doverosa ogni celebrazione di Francesco, ma dovremmo accorciare le distanze tra il detto e il vissuto, perché è ciò che ci domanda il santo e che mi piace sempre riproporre con una frase del filosofo francescano Giovanni Duns Scoto: ‘Nulla è grande dinanzi a Dio, ma tutto è ugualmente degno’”. Francesco, aggiunge, “rappresenta davvero il dna degli italiani per il fascino del bello e per la generosità”, e la sua attualità si sviluppa lungo tre maggiori direttrici: “La solidarietà verso gli altri; il rispetto per l’ambiente e per la vita espresso nel Cantico delle creature; lo spirito di pace testimoniato dalla Giornata Mondiale di Preghiera che si tiene in Assisi dal 1986. Per richiamare papa Leone, san Francesco è l’uomo che disarma perché è disarmato”. Valori condivisibili sotto ogni latitudine, aspirazioni nobili e immanenti: cosa connota in più un santo della Chiesa? Padre Fortunato ricorre a una metafora: “Dobbiamo immaginare un albero con tanti rami. Ciascuno è un’espressione diversa del francescanesimo, ma se ci focalizziamo solo su di essi rischiamo di dimenticare il tronco, che per Francesco fu il Vangelo, e le radici, che affondano in Gesù Cristo. Lui stesso fu chiamato l’Alter Christus”.
Malgrado l’overload narrativo sul “parvulus” di Assisi, dovremmo aver capito che per emularlo non basta spegnere la luce nella stanza accanto né risparmiare sulla plastica, come suggerirebbe già il buon senso o i consigli utili allegati alla bolletta. La differenza sussiste piuttosto nel rapporto tra creature e creatore, poiché per Francesco tutte le cose, come spiegava san Bonaventura, non erano che “una scala per salire ad afferrare” Dio. “Qualsiasi lettura del rapporto di Francesco con il creato/natura che prescinda da questa origine, e che non sia abitata perciò da tale vertigine, non rende ragione al Cantico e alla sua figura”, scrive il poeta Davide Rondoni, presidente del Comitato nazionale dedicato all’ottavo centenario della morte del patrono d’Italia. Lui non fu “un allegro escursionista amante di fiori, farfalle e bei panorami” né può essere “un fantasma noioso, un fantoccio che dice cose scontate”, plasmato più sul narcisismo contemporaneo che sulle verità della sua vita.
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