Cancellata nella ex dimora Rothschild la mostra dell’ebreo-argentino Pablo Bronstein


Ansa
Anonimo inglese
Nessun visitatore potrà ammirare il suo lavoro perché la Gran Bretagna ha deciso una censura totale: nessun giornale o televisione inglese ne ha parlato o scritto. I giornalisti britannici hanno disertato pure l’anteprima stampa, come prassi vuole
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Raggiungere Waddesdon Manor, classica villa di campagna inglese che ricorda molto lo stile della reggia di Versailles, richiede più di un’ora di treno da Londra: bisogna arrivare al capolinea della piccola ferrovia a binario unico con treni a gasolio e poi prendere un taxi o una navetta (gratuita) per altri 20 minuti. Vale la pena però farsi il viaggio per visitare la ex dimora di Lord Jacob Rothschild, ramo inglese della famiglia tedesca di grandi finanzieri, scomparso l’anno scorso. Per decenni solo, si fa per dire, un museo pubblico, che custodisce innumerevoli tesori, dal pittor di vedute Canaletto al moderno Hockney, inclusa la più grande collezione di Bordeaux del Regno Unito, di cui uno risalente ai tempi di Luigi XVII, due anni prima della Rivoluzione francese e uno autografato dalla Regina Elisabetta II, adesso è diventato l’ultimo bersaglio dell’odio verso gli ebrei, l’ennesimo, ma non sarà l’ultimo, episodio di antisemitismo, raffinato, subdolo e sottile.
Il nome Rothschild evoca ammirazione tanto quanto disprezzo: la dinastia ebreo-germanica dello “Scudo rosso” si è sempre divisa tra il cinismo finanziario, quello del “quando il sangue scorre per le strade, è il momento di comprare”, e il mecenatismo, quello di posti magici come Waddesdon Manor, scrigno di arte e bellezza. La cultura e la storia non hanno, o non dovrebbero avere, un colore politico, ma questi sono tempi bui e oscurantisti: un direttore d’orchestra non può suonare Ciajkovskij in Italia, solo perché russo; a Waddesdon la censura colpisce l’artista Pablo Bronstein. L’ebreo-argentino ha realizzato, su commissione dei Rothschild, una serie di disegni a grande scala dove ha immaginato il Tempio di Salomone, la prima “chiesa” ebraica della storia secondo il Tanakh: ha provato a ricostruire come sarebbe stato. Le varie ipotesi disegnate dall’artista sono ricostruzioni in sezione del biblico edificio, distrutto prima dai Babilonesi, ricostruito dopo 400 anni e poi distrutto per la seconda, e ultima, volta, dal generale romano Flavio Tito, il futuro imperatore Vespasiano: quello fu l’inizio della millenaria diaspora del “volgo disperso” d’Israele.

“The Temple of Solomon and its contents”, in esposizione gratuita a Waddesdon Manor, è un’opera d’arte squisita dai raffinati color pastello, infarcita di citazioni di cultura classica e Rinascimento e archeologia: dalle colonne del baldacchino di San Pietro, disegnate dal Bernini, a “Noè e il Diluvio” della Cappella Sistina di Michelangelo; dai cherubini babilonesi alla “Creazione dell’uomo” di William Blake. I riferimenti spaziano dall’erudizione alla cultura popolare di Hollywood: le 12 tribù di Israele, lo stesso numero preso dall’Unione Europea per le stelle che adornano la bandiera comunitaria, portano un’arca dell’alleanza che è curiosamente simile a quella dei “Predatori dell’arca perduta”, il film che ha lanciato il personaggio di Indiana Jones.
La Bibbia descrive come Dio diede a Mosè istruzioni su come costruire il candelabro a sette bracci, la Menorah, che ardeva sempre dentro al tempio. La ricostruzione di Pablo è una versione fantasiosa ed egiziana (c’è un riferimento a Giacobbe mummificato). Peccato che nessun visitatore potrà ammirare il certosino lavoro di Bronstein perché la Gran Bretagna ha deciso una censura totale: nessun giornale o televisione inglese ne ha parlato o scritto. I giornalisti britannici, dal Times al Daily Mail, hanno disertato pure l’anteprima stampa, come prassi vuole. Nemmeno hanno scritto una recensione pessima, cosa che sarebbe stata loro diritto, ma hanno semplicemente deciso di non presentarsi nemmeno: il solo argomento, il tempio di Gerusalemme, è motivo di fastidio e di imbarazzo.
Ai tempi dell’imperatore Caligola, c’era la abolitio memoriae dopo la morte, ora siamo all’abolitio notitiae. Fosse stato un artista emergente palestinese, sarebbe stata tutta una copertura mediatica ad abudantiam, giusto per rimanere in tema di latinismi. Ma non c’è niente da fare: ormai Israele è sinonimo di male a prescindere, anche se si parla di ebraismo, che peraltro sono le origini dell’Occidente. La colpa di Bronstein è di essere un “giudeo” che ha realizzato un’opera ispirata alla fede dei “giudei”. Una religione millenaria, tra le più antiche al mondo e fondamenta della civiltà occidentale, è oggi solo degna di ostracismo: la cosiddetta intellighenzia europea è ormai ridotta a un centro sociale Leonka con una visione manichea tra buoni (sempre loro) e i cattivi (tutti quelli che non piacciono a loro).
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