Bologna Blues. Sotto i portici con Enrico Brizzi
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(LaPresse)
La scrittura, le tradizioni, il dialetto. Come cambia la città simbolo della cultura giovanile. Una domanda allo scrittore di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: se la città è ancora Dotta, Grassa, Rossa e Turrita
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"Non vorrai mica smentire la canzone per cui in centro a Bologna non si perde neanche un bambino”. A darmi indicazioni stradali al telefono c’è Enrico Brizzi e a me tocca ammettere di essermi smarrito sotto i portici. Sono a Bologna perché dopo aver letto Due, l’agognato sequel di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, mi è venuta voglia di un po’ di turismo nella mia gioventù e anche di chiedere all’autore se la città è ancora Dotta, Grassa, Rossa e Turrita. Già che ci siamo, sarebbe pure il caso di capire com’è cambiata da quell’estate dell’uno nove nove due quando il vecchio Alex, il protagonista dei due romanzi, trottava come Girardengo su per la Saragozza avenue. Finalmente trovo il posto e c’è un momento di rispecchiamento: sembriamo entrambi usciti da Peaky Blinders. Ci immergiamo su via Indipendenza dove qualche coppia sta facendo le rituali vasche. “Quando ero ragazzino non ti veniva nemmeno in mente di girare Bologna a piedi. Per andare in centro si partiva in bici o in vespa. Se guardi le foto c’erano le macchine parcheggiate in piazza Maggiore” mi dice Brizzi, appena becchiamo un tavolo all’aperto. La proprietaria è preoccupata dal passaggio di una volante e non vuole incorrere in qualche multa per l’astruso regolamento sui dehors. “Fino a dieci anni fa tutto questo turismo era inimmaginabile. Oggi la città si è molto imborghesita, o gentrificata, per usare una parola che mi fa schifo”. L’impressione è che abbia proprio mutato pelle: da epicentro della cultura giovanile grazie all’università a città-vetrina nel grand tour del tortellino. Un gigantesco Airbnb a cielo aperto. “Quello che è cambiato è che gente della mia età ha ereditato l’appartamento della zia, come per esempio queste case tardo ottocentesche su via Indipendenza, e oggi campa di rendita. Ha proprio smesso di lavorare”.
Mi sa che bisogna avere parenti possidenti per meritarsela questa fortuna. “Mica lo dico con invidia. E’ stato al classico, il Caimani dei miei libri, la scuola fascia della città, che mi sono ritrovato in mezzo ai Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare. La mia è una famiglia numerosa: mio padre aveva otto fratelli, mia madre sette, e i nonni non erano certo Trump. Erano un geometra della provincia e il direttore dell’ufficio postale di San Lazzaro di Savena”. I nonni torneranno spesso in questa chiacchierata, ma intanto gli chiedo come si riconosce un bolognese doc. Bastano sette generazioni come per i romani? “Metto in chiaro le mie credenziali: famiglia bolognese almeno dal 1613. Il mio avo Guidus de Briziis, spada alla mano, lavorava per il comune di Bologna in qualità di capitano della montagna. Stava sull’Appennino a fermare le invasioni toscane e a sedare i nobilotti riottosi, che di giorno erano conti e di notte si mettevano la maschera da briganti per fare le rapine”. A naso ce ne vogliono più di sette di generazioni, allora. Mi racconta che è tutto frutto delle ricerche del babbo professore di Storia moderna specializzato nella mobilità studentesca. “La generazione dei miei genitori si vergognava a esprimersi in dialetto, ma i nonni lo parlavano. E sarà una roba di retroguardia ma quando mi rendo conto che le mie figlie non capiscono una parola diventa una missione scriverla”. Ma, domanda delle domande, si parla ancora il dialetto bolognese a Bologna? “Lo puoi sentire allo stadio, anche se pure lì soprattutto con la Champions League sono arrivati i turisti. E’ una lingua che sta sparendo”.
Brizzi è all’ombra delle due Torri proprio per la partita. E’ abbonato e ha appena scritto una canzone per la squadra felsinea intitolata Zirudela del Bologna. Questo è uno dei fili che lo lega alla città d’origine da quando si è trasferito a Como. L’altro è la lingua a cui sente il bisogno di tornare. “A Porta Maggiore c’è una targa che ricorda l’intuizione di Dante nel De Vulgari Eloquentia, quando si rende conto che a Bologna si parlano due dialetti diversi: nella parte dei cavalieri la lingua era più simile al lombardo per via della radice germanica; nella parte popolare, con portici che per poco non ci sbatti con la testa per quanto sono bassi, era molto più evidente la radice latina. Questo dialetto doppio ce l’avevo anche in casa: i miei nonni si correggevano a vicenda”. Mi viene il sospetto che una domanda sui nonni a questo punto ci voglia. “Faccio parte di una generazione a cui è stato detto che i nonni vanno capiti. Mio padre era ancora nella culla che gli volò una bomba a mano dentro la stanza. Erano i repubblichini che la volevano far pagare a mio nonno per essere passato dall’altra parte. Quello stesso nonno mi raccontava di quando si è ritrovato in attesa al comando dei partigiani accanto a un secchio pieno d’occhi cavati. In quel caos pietà l’era morta, ma comunque si stava meglio in città. Avevano dovuto vendere la terra che era loro da sempre per rifugiarsi a Bologna. Le violenze di piazza e private, da una parte e dall’altra, sono di casa qui. Sono cresciuto sapendo che alle spalle c’era una storia di sangue”.
Bologna città senza pietà, verrebbe da dire con Luca Carboni. Sarà per la collocazione geopolitica di cerniera, ma da qui sono passati tutti, dagli etruschi fino ai punk rocker. “E’ una città aperta. Il sole sorge dal lato del mare e tramonta verso San Luca. C’è un aspetto psicogeografico: siamo l’unica regione che prende il nome da una via. Significa che siamo gente di strada, ontologicamente in viaggio. Da un lato c’è l’Appennino dall’altro la Bassa, le Badlands, gente abituata a ragionare per are e tornature. E poi sull’asse della via Emilia c’è la megalopoli di cui parla Tondelli, per cui da Parma a Rimini è raro che si interrompa l’abitato. Bologna è sempre stata politicamente un tutt’uno con la Romagna”. Ahia, ho sentito di gente aggredita per molto meno. “Eh, se vuoi far incazzare un bolognese basta dirgli che è romagnolo, oppure provinciale”. Appunto, leggo che oggi gravitano circa un milione di persone attorno a Bologna. Non una metropoli ma nemmeno un paesino. “Si è sempre percepita grande, ma nel 1200 era praticamente New York. Basta guardare la cinta muraria, una delle più estese d’Europa, ed era così ben difesa da prendere prigioniero il figlio di Federico II e non restituirlo mai più”. Città un tempo guelfa e poi capitale del cattocomunismo al ragù, o sbaglio? “Molti di noi sono figli di madri che andavano in chiesa e padri che facevano politica a sinistra. Io andavo a distribuire i volantini di Democrazia proletaria e poi filavo dritto agli scout cattolici. Non era vista come una contraddizione. I personaggi che a mia memoria hanno raccolto più consenso da queste parti sono Romano Prodi e l’arcivescovo Zuppi”. Sta a guardare che alla fine è Bologna la culla del compromesso storico, l’abbraccio ecumenico fra le due chiese, quella comunista e quella cattolica. “Basta vedere con chi se la prendevano gli studenti del ‘77. Sfilavano inscenando le nozze fra Berlinguer e Andreotti, al primo davano dello scemo all’altro del boia. I poteri forti qui sono da sempre la Chiesa, il Partito, l’Università e l’imprenditoria che ruota attorno alla Fiera”.
Brizzi diventa un caso quando a vent’anni pubblica Jack Frusciante è uscito dal gruppo, un libro che ha segnato una generazione. Chissà com’era essere lo scrittore giovane nella città dei giovani sul finire del millennio. Sbronzarsi in diretta su Telemontecarlo dallo zio Rispoli, fare un paio di comparsate al Maurizio Costanzo sciò, Michele Serra che ti ribattezza Giovane Holding, Vasco che ti intervista nel tuo pub di quartiere. Una vita spericolata. “Avere vent’anni a Bologna è come vivere a Disneyland, ma un conto è esserci nati, un altro venire da fuori. Chi arriva ha sempre dovuto sborsare un sacco di soldi. Poi c’è chi capisce il sacrificio e si mette sotto a dare esami, ma pure tutta una genia di cazzari al diciottesimo anno fuori corso al Dams. Quando mi capitava di scendere in treno vedevo questi figli del concessionario Lancia Alfa Romeo di Avellino che salivano con l’osso al naso da cannibale, andavano in bagno e uscivano pronti per il pranzo di Natale coi parenti. Un sacco di fuorisede si lamentano di non aver conosciuto nemmeno un bolognese, ed è vero che sono due comunità distinte. La musica, però, è sempre stata trasversale: si andava negli stessi locali e agli stessi concerti”.
Oh, arriviamo agli studenti che si lagnano dei prezzi alti per treni e mezzi, degli aumenti degli affitti. “Lo sfruttamento degli studenti è uno dei business tradizionali della città. Già nel ‘500 gli studenti manifestavano contro il carovita a Bologna, ma sapevano di trovarsi in un polo d’eccellenza. Voglio dire, in via Galliera c’era casa di Copernico. A un certo punto il rettore concesse agli studenti di portare la spada per difendersi nelle risse, dopo che uno di loro era stato accoppato da un bolognese”. I problemi cambiano restando sempre gli stessi, rendite di posizione incluse. “Che Bologna sia una città borghese non c’è dubbio. Non trovi grandi quartieri operai perché l’industria emiliana è piccola, diffusa. Non ci sono gli Agnelli da queste parti. I luoghi del sottoproletariato e dell’emarginazione quand’ero bambino erano la Barca e il Pilastro, in cui c’erano calabresi, siciliani, addentellati di malavita, una specie di Cinquantaseiesima strada. Il Pci ha fatto un lavoro per recuperarli quei posti. Ci apriva l’Arci, la radio libera. Oggi ci si può andare senza problemi, ai tempi se ci passavi in bici tornavi senza”. E’ difficile conciliare la roccaforte di sinistra che si muove a 30 km orari con il sesto posto fra le città più pericolose in Italia. “E’ l’ambivalenza fra l’immagine bonaria e la violenza sommersa, che viene a galla coi giallisti bolognesi negli anni 90. In quei romanzi come nella vita vera c’erano i naziskin, i malavitosi imbottiti di coca che facevano le scommesse all’ippodromo tipo “Vuoi vedere che per dieci milioni me la faccio in retromarcia fino a Firenze?” Se leggi La Balla dalle scarpe di ferro di Loriano Macchiavelli scopri che il primo processo per associazione a delinquere nel neonato Stato italiano si è tenuto a Bologna. Io sono cresciuto vicino allo stadio, una zona piccolo borghese, ma la domenica dalla terrazza vedevi gli scontri. E’ una città che non assomiglia a nessun altro posto che conosco”. Parecchio diversa rispetto a dove ti sei trasferito, in quel ramo del lago di Como, no? “Lì a mezzanotte o sei a letto o ti ci mandano. Per carità, ho il kayak e la bici, i sentieri dietro casa. A cinquant’anni è un posto meraviglioso, ne avessi venti mi sarei sparato”.
A proposito di andar via, in Due Alex e gli amici partono per un interrail. Oggi che la stazione sembra la miniera di Moria, Bologna è ancora la rampa di lancio per esplorare il mondo? “L’interrail sta tornando. Due delle mie figlie l’hanno fatto. Al di là che Bologna è un posto comodo per raggiungere altri luoghi, per me è anche una storia di famiglia. A casa mia gli uomini lavoravano fuori. Mio zio Ulisse faceva il commissario di bordo sui transatlantici e tornava ogni sei mesi portandosi dietro storie a metà fra l’esotico e la mitomania. Raccontava di uno scalo a Saigon nel ‘72 in cui invece di fiondarsi in un bordello con gli altri lui decide di andare a vedere la guerra del Vietnam. Solo che poi non riesce più a tornare e lo devono trasportare con una piroga sul Mekong. Un altro zio faceva l’ingegnere civile nell’Africa francese e casa era piena di armi indigene e trofei di caccia grossa”. Sarà la pianura ma viene da pensare che è facile superare i colli e andare altrove. “Il mio viaggio iniziatico, ai tempi della maturità, è stato andare a piedi fino al mare con un mio amico. Io mi ero portato dietro un’ascia che pesava da morire. Per andare a Rimini ci vogliono un’ora o un’ora e mezza a seconda del traffico, ma si può tramutare in un’avventura di sei giorni”.
Ci trasferiamo in trattoria. Ordiniamo l’antipasto e due gramigne alla salsiccia. Mi viene in mente un pezzo del New York Times in cui si parla di mortadella nightmare. Dice che ormai è diventato impossibile anche solo prenotare. “Io ci sono cresciuto dentro un ristorante, con mia zia che spignattava. In questa terra vige il matriarcato, lei gestiva il locale assieme alla madre e alla zia. E un piatto di tagliatelle usciva sempre fuori”. Ma in questa mutazione gourmet, le bettole che ti scodellano la pasta senza risottarla esistono ancora? “La trattoria di quartiere è quasi scomparsa. In compenso è pieno di antiche osterie bolognesi dal 1800 nate in realtà l’altro ieri. Magari prima erano pizzerie. C’è una sclerotizzazione delle persone che si fidano di Tripadvisor e Instagram: vogliono tutti andare nello stesso posto, fare le stesse foto, mangiare gli stessi piatti. La differenza vera nel rapporto col cibo, però, è più dentro casa. Una volta c’era fissa una pentola sui fornelli, oggi sono cambiate anche le famiglie. E ti dirò che scrivere mentre sai che c’è un brodo che va a fuoco dolce è tutt’un’altra cosa”. Mi mostra i risultati, di cui va legittimamente fiero, del menu per la festa a tema futurista degli Psicoatleti, l’associazione di camminatori in cui milita da vent’anni. Sono piatti assurdi, che vanno cucinati bendati, tratti da un ricettario del ‘31: gelatine di un blu lunare chiamate emozioni elettriche candite, una torta salata a forma di sole rotante...Avviandoci verso lo stadio il discorso scivola sul calcio. Mi racconta delle telefonate beneauguranti prima di ogni partita a casa del compianto mediano di spinta Klas Ingesson, che aveva avuto la malaugurata idea di inserire il numero sull’elenco. Il giocatore attuale a cui è più affezionato? “Anche per la mentalità britannica, ti dico Ferguson. Si è spaccato i legamenti del ginocchio e ha continuato a giocare con i compagni che chiamavano la sostituzione”. Mentre passeggiamo al ritmo spedito con cui si va alla partita, leggiamo un titolo del Resto del Carlino che parla di scontri in via del Pratello. Brizzi mi dice: “Per me è come dire scontri nel corridoio di casa. E’ la via delle osterie e dei bar, dove ho un sacco di amici”. Superiamo qualche scritta fresca d’inchiostro per Ramy e Gaza. Bologna è anche una città che non fa sconti. Pure Cesare Cremonini, che oggi passa per cantautore, quando era la voce dei Lùnapop veniva dileggiato. “Io c’ero all’Mtv Day, nel 2000. Gli avevano fatto uno striscione con scritto Lunapippe”. E’ capitato anche a te? “Come no. Trent’anni fa gente che magari oggi ha ereditato una farmacia scriveva sui muri del centro Jack Frusciante è entrato nel business”. L’unica cosa che non si perdona, si sa, è il successo.
Gli chiedo se la lontananza, una frequentazione più saltuaria e, perché no, anche questa chiacchierata non gli abbiano fatto venire voglia di scriverci un libro su Bologna, la sua città. “E’ il progetto di una vita” mi risponde. Editori e lettori, siete avvertiti. Ci salutiamo, io mi dirigo un po’ a casaccio verso il Roxy Bar che esiste davvero, mica solo nella canzone. Non incontro nessuna star, ma in compenso mi raggiunge Giorgio, un amico libraio. Complice qualche bicchiere, per arrivare alla stazione ho comunque bisogno di Google Maps. Spero che Dalla e Brizzi mi perdoneranno.
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