Roberto Carlino, l’ingegnere italiano che progetta vele per viaggiare verso il Sole

Viaggiare nello spazio con una vela solare. Già nel Seicento, Keplero immaginava che le comete potessero navigare grazie a una forza invisibile proveniente dal Sole. Ma ora quella visione è diventata realtà. Ed è anche grazie a un talento italiano alla Nasa.

Lui è Roberto Carlino. 36 anni, ingegnere aerospaziale, è partito dalla Federico II di Napoli con il massimo dei voti. Oggi è una delle punte di diamante del centro Ames della NASA. Aveva un sogno da bambino: lavorare nello spazio. E ha percorso tutta la sua vita, tappa dopo tappa, per arrivare lì. «I primi sei mesi in California mi svegliavo e dicevo: non ci credo di essere arrivato qui».
Da 10 anni vive e lavora alla Nasa nel cuore della Silicon Valley. Due i suoi progetti più importanti: ha guidato la missione che ha portato in orbita un satellite che si muove nello spazio con una vela solare.
«Le vele in mare si muovono spinte dal vento, qui la vela si muove spinta dalle radiazioni solari». E al Sole arriva più vicino di quanto mai fatto prima.
Per il secondo progetto, invece ha sviluppato robot volanti, che da anni fanno da assistenti personali agli astronauti che lavorano sulla Stazione Spaziale Internazionale (foto sotto).

Intanto Carlino entra nelle scuole e racconta che niente è impossibile. «L’uomo sulla Luna è il simbolo dei sogni impossibili che si realizzano. L’esplorazione spaziale, l’ultima frontiera dopo le terre e gli oceani, è un’ispirazione per l’umanità intera. Lo spazio è un ambiente ostile, ignoto, eppure ci attrae perché siamo portati a scoprire lo sconosciuto, a superare i nostri limiti di conoscenza per trovare la risposta alla più grande delle domande: cosa ci facciamo noi esseri umani, in questo universo smisurato?». La Nasa e tutte le agenzie spaziali internazionali stanno lavorando incessantemente per portare l’uomo su Marte. Carlino ha preso parte a una delle simulazioni più intense mai progettate dalla NASA: la missione HERA (Human Exploration Research Analog).
Dal 27 maggio all’11 luglio 2022, con tre compagni di viaggio ha trascorso 45 giorni in completo isolamento all’interno di un habitat chiuso presso il Johnson Space Center di Houston. Cibo disidratato, zero privacy, tanti esperimenti, nessun contatto con l’esterno. Le comunicazioni per gli esperimenti erano ritardate artificialmente per simulare la distanza tra la Terra e lo spazio profondo. L’obiettivo? Testare le dinamiche psicologiche, cognitive e operative di un equipaggio durante una missione esplorativa su una luna di Marte: Phobos. «È stata un’esperienza unica, importantissima dal punto di vista scientifico, ma ho imparato molto anche su me stesso e come gestire le emozioni».
Laurea e master in ingegneria aerospaziale tra Napoli e Roma, due Erasmus, uno a Delft, nei Paesi Bassi, e uno a Bruxelles, in Belgio. È arrivato alla NASA grazie a un professore americano che insegnava in Italia. Ha superato decine di colloqui, poi è entrato per un tirocinio e a quel punto se l’è giocata. «Lavoravo mattina e sera, per dimostrare che meritavo una posizione stabile. Non è stato facile: l’inglese tecnico, la cultura diversa, la pressione di un ambiente d’eccellenza. Ma volevo restare».
Passati 10 anni, Carlino non ha perso l’entusiasmo e la gratitudine verso questo mitico luogo. Durante l’intervista in videocall, indossa una felpa azzurra Nasa, beve un caffè in una tazza Nasa, ha alle spalle un poster della Luna e negli occhi una luce che si illumina quando parla di spazio e spiega i suoi progetti.
«Il primo progetto si chiama Astrobee: una flotta di piccoli robot autonomi, cubi di circa 30 centimetri per lato, che si muovono all’interno della Stazione Spaziale Internazionale. Bee perché girano come api intorno agli astronauti e li assistono. Sono un mix tra assistenti intelligenti di intelliigienza artificiale e piattaforme di ricerca, progettati per eseguire esperimenti e riparazioni. Poi c’è la tecnologia del volo a vela solare. Abbiamo assemblato un satellite piccolo come una scatola di biscotti. Una volta in orbita si è dispiega una vela di 80 metri quadrati. Si muove spinta dalla luce solare che, anche se composta da fotoni con massa zero, esercitano un minimo di movimento, sufficiente a muovere la vela nello spazio. È un sistema che consente di viaggiare senza propellente chimico: meno costi, più autonomia. Con questa tecnologia si può studiare il Sole da molto vicino».

La vela solare non è solo un esercizio di ingegneria: può aprire nuove rotte per l’esplorazione e tante sono le applicazioni. «La vela solare ci permette di avvicinarci al Sole e studiarlo nel dettaglio, vedere le tempeste solari che sono tra le cose più importanti al momento per la scienza e l’umanità».
Perché? «Il Sole ha un ciclo di 11 anni che va da un massimo a un minimo di attività. Durante i picchi si verificano le tempeste solari, che possono causare problemi a comunicazioni, a satelliti in orbita, e addirittura alla rete elettrica sulla Terra. Spesso ci sono stati blackout di elettricità a causa di forti tempeste solari».
C’è di più. La vela può anche andare nella direzione opposta: «Può essere usata per esplorare i pianeti più esterni, verso l'esterno del Sistema Solare, quindi Giove, Saturno, Urano... oppure per studiare molto più vicino gli asteroidi o le comete».
Appassionato di NASA e spazio fin da ragazzino, Carlino è stato folgorato da un film. «Hai visto Contact con Jodie Foster? È un film di fantascienza del 1997 tratto dall’omonimo romanzo di Carl Sagan e mi ha ispirato moltissimo: trovi scienza, rigore, emozioni filosofia. L’ho visto venti volte e da lì ho cominciato a sognare lo spazio. Sono cresciuto poi con i libri di Stephen Hawking, ne ho letti tantissimi e ho iniziato a chiedermi: da dove veniamo? Poi all’università cercavo tutte le strade per realizzare i miei sogni».
E sì, i sogni si realizzano. «Bisogna tentarci, fallire e riprovarci tantissime volte. Quando sei giovane, nella fase dell’università, devi studiare le diverse strade, i diversi modi per arrivare al tuo obiettivo. C’è la strada più lunga, tortuosa, che però magari è quella più fattibile. E quella più corta, che però per problemi o probabilità non si può materializzare. Quindi devi avere diverse opzioni. E provare 1, 2, 3, 4, 5, 6 volte…».
Dice proprio cosi: conta le strade. Poi parla dei nuovi percorsi che forse si troverà a prendere proprio in questo periodo. I tagli alla ricerca, Trump, gli Usa. «Forse le cose potrebbero cambiare presto per me. Ma nonostante tutto, gli Stati Uniti sono ancora il paese che investe di più nel settore spaziale».
Tornerai in Italia?
«Non so dire con precisazione cosa succederà nei prossimi 10 anni. Ma non ti nego che l'idea di tornare in Italia a un certo punto, magari con un buon lavoro, mi attrae tantissimo».
Cosa hai imparato nella tua carriera così al confine con l’ignoto che può servire a tutti noi?
«Ho imparato a connettermi e interagire con persone di tantissime nazionalità, tantissime ideologie, tantissime culture diverse. E ho capito che la diversità è solo e sempre ricchezza».
Una carriera straordinaria partita grazie a un film. Ora vado a noleggiare Contact.
La Repubblica