Non buttate i vecchi smartphone, possono trasformarsi in micro data center per le smart city

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Non buttate i vecchi smartphone, possono trasformarsi in micro data center per le smart city

Non buttate i vecchi smartphone, possono trasformarsi in micro data center per le smart city

Ogni anno si stima che quasi 1,4 miliardi di smartphone arrivino sul mercato. Nuovi di pacca. Prodotti elettronici che nel giro di pochi anni, spesso, diventano rifiuti. Non perché si rompano, ma il marketing martellante ci porta a desiderare cellulari sempre più performanti ogni 2 o 3 anni. Il riciclo di questi device tascabili è un problema più serio di quanto possa sembrare in apparenza. I minerali preziosi, critici ed inquinanti finiscono, troppo spesso, nelle discariche, e poco spesso, in un riciclo virtuoso. In parte c'è il fenomeno del second hand, che convince alcuni di noi, a vendere il nostro smartphone, piuttosto che tenerlo in un cassetto per mesi, per poi buttarlo via. Ma non basta.

Per fortuna c'è chi pensa a nuovi metodi per valorizzare gli e-waste, o meglio riutilizzare i potenziali rifiuti in applicazioni inedite, riducendo le emissioni di CO2 e lo spreco energetico, considerando che la produzione di hardware elettronico è notoriamente energivora.

Dall'Università di Tartu, in Estonia, un team di ricerca ha pensato bene di riconvertire gli smartphone “obsoleti” per costruire dei micro data center. Un'operazione che costerebbe appena 8 euro a dispositivo, trasformandoli in hub di calcolo a basso costo per l'elaborazione dei dati a livello locale; tecnologia a basso costo che promette di abilitare nuove funzionalità per le smart city e il monitoraggio ambientale. I ricercatori sono convinti, infatti, che sia possibile riprogrammare gli smartphone per renderli utili in diverse applicazioni urbanistiche, tra cui il tracciamento dei passeggeri degli autobus per capirne il flusso in tempo reale e nelle varie ore del giorno. E questo è solo un esempio possibile. L’IA, la scienza dei dati e altri ambiti dell'informatica stanno alimentando un aumento senza precedenti della domanda di potenza di calcolo.

Sappiamo che i data center centralizzati, quelle che custodiscono miliardi di dati, necessari all’IA, sono tra i maggiori consumatori di energia a livello globale, richiedendo enormi quantità di elettricità per il funzionamento dei server e per i sistemi di raffreddamento. Un'infrastruttura, fondamentale per l'era digitale, ma con un'impronta ecologica molto importante. Secondo l'Agenzia Internazionale dell'Energia, i data center consumano attualmente tra il 2% e il 3% dell'elettricità mondiale. Senza contare che il consumo di elettricità dei data center è cresciuto significativamente negli ultimi anni, con un aumento medio del 12% all'anno dal 2017; un tasso di crescita 4 volte superiore a quello del consumo totale di elettricità.

Ma torniamo alla ricerca estone. E’ chiaro che gli smartphone non sostituiranno quei data center, ma seppur con funzioni locali, possono comunque allegerirne il peso, e soprattutto saranno di nuovo utili, come prevede il principio basilare dell’economia circolare.

“L'innovazione spesso non inizia con qualcosa di nuovo, ma con un nuovo modo di pensare al vecchio, reimmaginandone il ruolo nel plasmare il futuro", sono le parole di Huber Flores, Professore Associato di Pervasive Computing in merito alla ricerca.

Ma vediamo cosa hanno fatto gli accademici di Tartu. Tecnicamente, lo smartphone è dotato di CPU e RAM sufficienti per compiti di calcolo “leggeri”, anche se non più adeguati all'uso quotidiano come telefono principale. Nella prima fase del progetto, hanno rimosso le batterie da 4 telefoni e le hanno sostituite con fonti di alimentazione esterne per ridurre il rischio di dispersione di sostanze chimiche nell'ambiente. Successivamente, sono stati collegati tra loro, dotati di custodie e supporti stampati in 3D; per ottimizzare il raffreddamento, la protezione e l'installazione in ambienti specifici vengono spesso utilizzati contenitori che possono essere progettati per ospitare uno o più smartphone e per facilitare l'integrazione in una rete più ampia. Non siamo certi di quali altre modifiche il team abbia apportato ai telefoni, ma sembra che abbiano anche creato un software personalizzato, perché vicino a fonti locali, come sensori IoT, fosse in grado di ridurre la latenza e il carico sulla rete centrale, cioè sul cloud. Tutto con bassi consumi energetici. Infine è stato realizzato un prototipo e realizzato un primo test sott'acqua per il monitoraggio della vita marina, contribuendo al conteggio automatico di specie acquatiche. Attività che richiederebbero l'intervento di subacquei per la registrazione video e la successiva analisi manuale. Con il sistema sviluppato a Tartu, l'intero processo è stato automatizzato.

Ovviamente, non mancano le criticità. Chiaro è che le batterie degli smartphone non sono progettate per un funzionamento continuo 24/7 e la durabilità generale dell'hardware consumer può essere inferiore rispetto a quella di un server professionale. Lo spazio di archiviazione interno degli smartphone può essere limitato, anche se molti supportano schede SD esterne e la maggior parte degli smartphone ha solo Wi-Fi, mentre per una connessione cablata stabile, è necessario un adattatore. Ma in quanti “smanettoni” usano vecchi telefoni come archiviazione o per gestire sistemi di domotica ed allora perché non usarli per la raccolta e il monitoraggio della qualità dell'aria, dell'acqua, del rumore? Il limite è solo la fantasia.

La Repubblica

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