Federico Battiston, il fisico italiano che ha vinto il premio più ambito nella scienza delle reti

Tutto è rete. I social network, ma non solo. Esistono reti nel cervello, nei villaggi di cacciatori-raccoglitori nelle Filippine, nei sistemi economici globali, nelle stanze chiuse di una escape room. Reti invisibili che determinano chi siamo e ciò che scegliamo. E c’è una scienza che le studia. Si chiama network science, o scienza delle reti, e cerca di capire come le relazioni tra persone, neuroni, istituzioni influenzino il comportamento collettivo.
«Quello che conta in questi sistemi, formati da componenti molto diverse, sono le loro interazioni». È in queste architetture sottili che lavora Federico Battiston, si occupa di fisica statistica, «ossia la fisica dei tanti oggetti», professore italiano appena premiato con l’Erd?s–Rényi Prize, il riconoscimento più prestigioso in questo campo, intitolato a due matematici ungheresi che hanno inventato i primi modelli di reti alla fine degli anni ’50. Una sorta di piccola medaglia Fields per la scienza delle reti.
Battiston ha dato un forte impulso alla teoria delle reti, dove le connessioni sono limitate tra coppie di individui, come per esempio nei social networks. Bisogna invece guardare ai gruppi, alle interazioni collettive, ai momenti in cui le influenze non sono di uno, ma di molti.
Trentasei anni, professore associato alla Central European University di Vienna, Battiston dirige il programma di dottorato in network science, l’unico di questo tipo in Europa. Coordina un gruppo di ricerca composto da otto persone, tra dottorandi e postdoc, provenienti da tutto il mondo: indiani, cinesi, brasiliani, sudafricani e, ovviamente, italiani.
La scienza delle reti è un campo interdisciplinare che si occupa di studiare tutti quei sistemi che possiamo rappresentare come networks.
«Non solo le reti sociali, ma anche sistemi ecologici, biologici come il cervello, sistemi di trasporto, scambi economici o alleanze politiche. Tutti possono essere mappati come reti, ossia una collezione di elementi, i cosiddetti nodi, e di link che descrivono le loro interazioni. Anche se diversi tra loro - le persone, per esempio, sono diverse da elementi come i neuroni o le nazioni - tali sistemi hanno anche numerose proprietà comuni legate proprio alla loro struttura di interazione. Ed è proprio lo studio della loro architettura che permette di comprendere il comportamento complesso emergente, come nel caso della diffusione di epidemie in una popolazione, o di un attacco epilettico, che avviene quando il nostro cervello si sincronizza troppo».
Romano, liceo classico, laurea in fisica teorica alla Sapienza. Due esami con Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica proprio nell’ambito dei sistemi complessi nel 2021. Poi parte: a Londra per il dottorato in matematica con Vito Latora, uno dei pionieri della scienza delle reti. Poi si muove ancora neuroscienze a Parigi, antropologia a Zurigo, tre anni a Budapest.
«La mobilità è una condizione quasi necessaria per fare carriera in accademia. Io penso di essere riuscito a ottenere buoni risultati perché ho avuto l’opportunità di lavorare in vari laboratori. Ma spostarsi è una scelta difficile, che rende necessari dei compromessi, anche forti, a livello personale» Dal 2020 Battiston si trova a Vienna.
La scienza delle reti è molto presente nella vita di tutti i giorni. E molti concetti di questa disciplina sono ormai entrati nel linguaggio comune. Quante volte avete sentito parlare di small world, delle famose sei strette di mano che collegano chiunque, i sei gradi di separazione, o dei super spreader che diffondono un virus in modo più rapido degli altri?
«Sono tutti concetti che arrivano dalla teoria delle reti. Oggi gli algoritmi che ci consigliano cosa leggere o chi seguire nei social media si basano sulla teoria delle reti. Tuttavia un utilizzo improprio di questi algoritmi può portare a conseguenze negative come la formazione di echo chamber, ambienti online dove interagiamo quasi solo con persone che la pensano come noi e finiamo per rafforzare e polarizzare i nostri pregiudizi».
In sistemi finanziari, il concetto di too big to fail è ormai stato rimpiazzato da too interconnected to fail: «L'esposizione totale di una compagnia o di un'istituzione finanziaria non è un parametro sufficiente per catturare il rischio di una crisi sistemica, ma è necessario considerare le intricate relazioni finanziarie tra le diverse istituzioni per capire come il fallimento di una banca possa portare a una serie di 'fallimenti a cascata'».
Pensando al Covid, la scienza delle reti ha dato contributi fondamentali all'epidemiologia. «Utilizzando dati reali su contatti sociali e di mobilità è possibile ottenere previsioni molto più accurate sull'andamento delle epidemie rispetto ad approcci tradizionali basati su equazioni matematiche, che assumono erroneamente che tutti gli individui siano ugualmente esposti al rischio di contagio, senza considerare le loro interazioni specifiche. Infine algoritmi di intelligenza artificiale producono farmaci sempre più efficaci identificando nuove combinazioni di principi attivi».
Ma la scienza delle reti a volte inizia anche in una escape room.
«Abbiamo raccolto i dati delle interazioni tra persone durante il gioco e poi osservato chi vinceva e perché. Chi prendeva decisioni, chi era centrale nella rete sociale, chi contribuiva davvero alla soluzione. Un modo utile per capire cosa rende efficace un team, quali strutture di interazione permettono l'emergere di cooperazione e performance migliori».
La rete compare anche nei villaggi di cacciatori-raccoglitori nelle Filippine o in Congo. Dove non c’è nulla. Non c’è tv, telefono o Internet. «In queste popolazioni le conoscenze, come l’uso di certe piante per scopi medici, si tramandano di famiglia in famiglia. Persino il nostro microbioma dipende dalle nostre interazioni sociali. In un recente studio su Science, collegando la diffusione di tratti culturali e distanza genetica tra diverse popolazioni nel mondo, abbiamo dimostrato come anche gli scimpanzé mostrino segni di accumulazione culturale che sono dovuti al passaggio di conoscenze tra le diverse generazioni, una caratteristica che fino a poco tempo fa veniva considerata una prerogativa della nostra specie. Gli scimpanzé non costruiranno mai un computer, ma forse noi umani non siamo poi così speciali...».
La scienza delle reti è anche applicabile al cambiamento climatico. «Potremmo per esempio sensibilizzare le persone sul climate change tramite azione collettiva promossa da opportune interazioni sociali».
C’è una giovane ingegnera che studia le immagini delle TAC per insegnare alle macchine a leggerle meglio. Ha solo 25 anni, è esperta di modellizzazione matematica, ed è convinta che in quei dati ci sia molto più valore clinico di quanto oggi riusciamo a sfruttare. Si chiama Angelica Iacovelli e va oltre ai progetti di ricerca. Ha sviluppato algoritmi con un obiettivo preciso: automatizzare le analisi delle TAC in ambito oncologico, un processo che ancora oggi in molti ospedali viene fatto a mano e da cui dipendono decisioni fondamentali. Prima fra tutte: il tipo di cura.
Ha studiato al Politecnico di Milano, ha fatto ricerca a Stanford, ha fondato una startup negli Stati Uniti e oggi lavora tra Milano e San Francisco. Collabora con l’oncologo Michele Ghidini del Policlinico di Milano e ha un sogno: «Fare in modo che la ricerca non resti chiusa nei paper, ma diventi uno strumento vero nelle mani dei medici».
Sentirla parlare è una meraviglia.
«Abbiamo sviluppato un software che automatizza l’analisi delle immagini TAC per estrarre metriche fondamentali, che oggi non vengono usate. Tra queste metriche, per esempio, estraiamo la massa muscolare scheletrica. È proprio da questa metrica che si determina se un paziente oncologico è sarcopenico». Con precisione ti spiega che la sarcopenia è quella malattia in cui si perdono muscoli e forza e che secondo gli ultimi studi scientifici è correlata a un peggioramento degli esiti delle terapie e a una maggiore mortalità. «Oggi queste analisi sono effettuate manualmente o con strumenti pensati per la ricerca e non utilizzabili nella pratica clinica (hanno un margine di errore altissimo). Nessuno ha ancora introdotto un software clinicamente operativo per identificare la sarcopenia direttamente da immagini TAC. Il nostro obiettivo è proprio questo: portare questa tecnologia nella clinica, con risultati disponibili in meno di 2 secondi e senza la necessità dell’intervento di un esperto esterno, come per esempio un nutrizionista».
Nessuno ci ha mai pensato prima? «In ambito medico si fa innovazione molto lentamente. Ci si scontra con la regolamentazione, la politica, i tempi lunghi. È difficile, così spesso chi ci prova molla il colpo. Ma qualcuno deve farlo. E se non lo fa nessuno, lo faccio io».
Angelica lavora con modelli matematici e algoritmi di intelligenza artificiale applicati all’analisi di immagini mediche. «Utilizzo, tra le altre cose, reti neurali e tecniche di segmentazione basate sulle Hounsfield Units (valori di densità contenuti nelle TAC), per distinguere automaticamente i diversi tessuti corporei – come muscoli, grasso viscerale e sottocutaneo – e ricavarne metriche clinicamente rilevanti».
La sua storia parte da Bari. Cresce tra Grumo Appula e Palo del Colle, due paesi nell’entroterra barese. Figlia unica, origini umili. «Mio padre era un bidello, mia madre si occupava della casa. Non abbiamo mai avuto molte risorse, per studiare abbiamo fatto grandi sacrifici».
Dopo il liceo, sceglie Ingegneria Civile al Politecnico di Milano. Non è un percorso lineare: «A un certo punto mi sono trovata a studiare il calcestruzzo e ho capito che non era quello che volevo fare». Si ferma, riflette, cambia. Si iscrive a Ingegneria Matematica: «Mi piaceva l’idea di acquisire strumenti solidi, da applicare poi in ambiti diversi — biomedicina, finanza, statistica». Durante gli anni universitari vince diverse borse di studio, va all’estero, un anno in Spagna, uno in India. Poi si laurea e arriva l’occasione che cambia tutto: fare ricerca a Stanford. «Anche in quel momento dovevo cercare fondi per potermi trasferire. Ho iniziato a parlare con tutti, a scrivere ovunque, ho applicato per ogni borsa di studio possibile, anche a quelle per cui non avevo i requisiti».
Alla fine, viene selezionata dalla Ermenegildo Zegna Founder’s Scholarship, che la sostiene per un periodo di ricerca a Stanford. Lì lavora su modelli computazionali per simulare il sistema cardiovascolare, basati su grafi e intelligenza artificiale. E vince il premio BHI. «Abbiamo sviluppato un digital twin del flusso sanguigno nel sistema cardiovascolare: un modello AI in grado di simulare il comportamento del sistema cardiovascolare in modo personalizzato per ciascun paziente. Ho combinato reti neurali LSTM (Long Short-Term Memory) con Graph Neural Networks, ottenendo miglioramenti rispetto ai metodi precedenti. Ma la cosa più impressionante è la velocità: i metodi tradizionali possono richiedere ore di calcolo su supercomputer per simulare anche solo un singolo battito cardiaco, il nostro modello riesce a farlo in pochi secondi».
Un’esperienza che le fa capire molte cose. «Mi sono resa conto che potevamo costruire strumenti molto potenti. Ma volevo che fossero usati davvero e avere un impatto». Così Iacovelli comincia a cercare contatti, a parlare con chi lavora nel mondo delle startup e riceve un'altra borsa di studio da Des Traynor, cofondatore di Intercom, unicorno nella Silicon Valley.
Poi entra in Lead the Future, rete di talenti italiani nel mondo STEM, pensata per mettere in contatto mentor e mentee e conosce l’oncologo Ghidini. «Mi ha raccontato per ore i problemi concreti che incontrano i medici ogni giorno in corsia. Mi ha aperto un mondo. Ho contattato centinaia di altri oncologi, in Italia e all’estero, per verificare se era un problema condiviso. E ho scoperto che lo era».
Nell’estate del 2024 Angelica fonda Nucleo Research in Silicon Valley. La fase di validazione è in partenza.
I prossimi step del loro lavoro sono cruciali. «Vogliamo portare nella pratica clinica un software per automatizzare anche la misurazione delle lesioni tumorali e la loro classificazione in target e non-target, benigne o maligne. Misurazione ancora svolta manualmente nella quasi totalità delle strutture ospedaliere».
Nel frattempo, Angelica sta preparando il primo round di raccolta fondi con investitori internazionali. «Sto valutando alcune opportunità di supporto da parte di realtà internazionali interessate al progetto».
A muoverla è anche una questione personale. «Sono cresciuta in un contesto in cui la malattia era presente e non ho mai potuto avere il controllo su nulla. Mia madre è morta qualche anno fa per un tumore aggressivo. Mio padre è malato di distrofia muscolare, oggi non è cosciente. Se non posso cambiare il corso delle cose, ho deciso di provare almeno a cambiare il modo in cui si affrontano».
Angelica guida anche la comunicazione di iTAL Foundation, organizzazione non profit che crea un ponte tra i talenti italiani e la Silicon Valley.
La sua visione scientifica è chiara. «I modelli di detection oggi sono già estremamente avanzati. Credo che il collo di bottiglia non sia più nella tecnologia. Il problema è tutto ciò che viene dopo: le barriere normative, la protezione dei dati, i tempi lunghi, l’integrazione nei processi clinici. Il medico deve potersi fidare di strumenti disruptive. Il nostro obiettivo non è sostituirlo, ma dargli uno strumento in più. E renderlo affidabile».
Che cosa ha fatto davvero la differenza nella tua vita?
«Il desiderio di fare qualcosa di mio. Spesso nel mondo della ricerca o in quello delle grandi aziende sei parte di un ingranaggio. Io voglio avere un impatto diretto, reale, vedere un’idea trasformarsi in qualcosa che funziona. Ho quasi un’ossessione per il mio progetto. È al primo posto nella mia vita. E se voglio aumentare la probabilità di farcela devo essere in Silicon Valley. Quando sei a San Francisco e vai a un evento, nessuno ti chiede: Come stai? La prima domanda che ti senti fare è: cosa stai costruendo? C’è di più: in Italia ti senti sempre una ragazza “troppo giovane” e non ti danno credibilità. Se dici: voglio curare il cancro, ti rispondono con ironia o con un: “Ma cosa stai dicendo?”. Se in California dico la stessa frase la risposta è: “Grande! Come pensi di farlo? Posso aiutarti”?.
Noi giovani possiamo ispirarvi. Possiamo cambiare il mondo, farcela anche senza seguire i percorsi tradizionali. Abbiamo bisogno di fiducia. Per questo ai miei coetanei dico di non farsi scoraggiare dal pessimismo. Che altro non è che un approccio difensivo, uno scudo protettivo, un modo per non rischiare. Ma il futuro non si costruisce stando al sicuro».
Battiston ha lavorato in tanti posti nella sua carriera. Ma mai in America. «Ho passato vari mesi al liceo negli Usa e ho fatto molti viaggi successivamente. Ma non sono un grandissimo fan del sistema americano di ricerca, che si basa più sulla competizione, intesa in senso Darwiniano di sopravvivenza del più forte, che sulla cooperazione. In Europa abbiamo meno risorse, ma nella nostra artigianalità siamo bravi a fare bene con il poco a disposizione. Il premio Erdos-Renyi è quasi sempre vinto da ricercatori americani o che vivono negli Stati Uniti. E oggi considero questo premio come un riconoscimento alla nostra comunità Europea, che ha dato contributi fondamentali alla scienza delle reti. E sull’università italiana aggiunge: «Le stesse criticità dell’Italia evidenziate sui giornali spesso si riscontrano anche all’estero, edulcorate dai maggiori finanziamenti. I soldi del PNRR hanno aiutato a rilanciare il nostro Paese, ma ora servono fondi strutturali per consolidare quanto ottenuto».
Torneresti in Italia?
«Se arrivassero proposte interessanti le ascolterei con attenzione. Attualmente i miei rapporti con l’italiana sono in ambito sportivo. Faccio parte della nazionale master degli over 33 di Ultimate Frisbee, un bellissimo sport che consiglio a chiunque abbia voglia di provare qualcosa di diverso». E poi aggiunge: «Ognuno di noi dovrebbe trovare un ambito che lo appassioni. E passare del tempo con esperti, supervisor e mentori. Perché, come insegna la scienza delle reti, la diffusione di conoscenza necessita di interazione».
La Repubblica