Milano e non solo. Cosa vuol dire criminalizzare la politica scommettendo sulla cultura del sospetto. Colloquio con Flick

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Milano e non solo. Cosa vuol dire criminalizzare la politica scommettendo sulla cultura del sospetto. Colloquio con Flick

Milano e non solo. Cosa vuol dire criminalizzare la politica scommettendo sulla cultura del sospetto. Colloquio con Flick

Foto LaPresse

L'intervista

“Quando la giustizia smette di occuparsi dei fatti verificati e inizia a occuparsi di sospetti, di teoremi, di fenomeni concentrandosi sul consenso nasce un problema”. Lo sconcerto nella “repubblica dei giudici e dei pm”. Una chiacchierata con il giurista ed ex ministro di Prodi

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Giovanni Maria Flick è un importante giurista italiano. E’ stato ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Prodi, è stato presidente della Corte costituzionale tra il 2008 e il 2009. E’ un uomo di sinistra, è un giurista cresciuto nel mondo progressista, ma da anni, in modo discreto ma deciso, ha iniziato una sua personale battaglia culturale per provare a mettere di fronte agli occhi della politica, sia quella di destra sia quella di sinistra, una verità necessaria: i danni creati da una repubblica fondata sulle esondazioni della magistratura. Flick ha accettato di dialogare con il Foglio su questo tema, in modo schietto, sincero e sorprendente, mettendo insieme tre elementi apparentemente molto diversi l’uno dall’altro.

Il primo elemento riguarda le indagini sul lavoro portate avanti a Milano da un pubblico ministero ormai noto alle cronache, Paolo Storari, anche se per delicatezza Flick non lo nomina mai. Il secondo riguarda le indagini sull’urbanistica portate avanti sempre a Milano dalla stessa procura, che hanno condotto ieri anche a un’indagine a carico del sindaco Giuseppe Sala. Il terzo elemento riguarda le motivazioni, clamorose e sottovalutate, depositate dalla Cassazione in merito a un incidente mortale con un bus ad Avellino, avvenuto nel luglio del 2013. Il filo conduttore che Flick intravede in queste storie rientra all’interno di un problema che sta a cuore a questo giornale. L’Italia, dice Flick, ha scelto di osservare con indifferenza le esondazioni della magistratura. Nell’osservare con indifferenza queste esondazioni ha creato un vuoto, uno spazio, all’interno del quale la politica ha accettato di dare alla magistratura poteri superiori a quelli che le spetterebbero. La magistratura ha spesso riempito questi vuoti andando a trasformare la cultura del sospetto nel motore principale del sistema giudiziario italiano. E l’incapacità della politica di riappropriarsi di quello spazio ha creato un problema enorme: la presenza di una magistratura che non si limita a occuparsi di reati ma che sceglie di occuparsi di fenomeni, facendo dunque prevalere nella sua azione un obiettivo non più legato al solo rispetto del codice penale e delle sue garanzie in tema di legge, reato, responsabilità personale e pena, ma legato a un pericoloso rispetto del codice etico. Il codice penale, lo sappiamo, permette una discrezionalità limitata. Il codice della prevenzione, invece, permette una discrezionalità illimitata. Secondo Flick, l’eccesso nell’uso delle misure di prevenzione, come l’amministrazione giudiziaria senza reato accertato, rappresenta un problema per il paese perché mina il principio di legalità, sostituendo la certezza del diritto con il sospetto, e perché permette, come è successo a Milano con molte inchieste, di “passare dalla repressione di fatti penalmente rilevanti a interventi su fenomeni fondati su giudizi di contesto, percezioni di rischio o finalità etico-sociali”. Questo approccio, dice Flick, “espone le imprese a una responsabilità anticipata e indeterminata, scoraggia gli investimenti, introduce incertezza nei rapporti economici e affida alla magistratura funzioni di controllo che spettano alla politica”. E non solo: “Così facendo il diritto penale diventa uno strumento di moralizzazione preventiva, con effetti distorsivi sia sulla responsabilità e sulla libertà d’impresa, sia sulla tutela dei diritti fondamentali”.

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Il caso della scelta di sottoporre Loro Piana a un’amministrazione giudiziaria sulla base di un’interpretazione creativa del diritto al lavoro – Loro Piana secondo la procura di Milano non avrebbe messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative nelle aziende appaltatrici – è secondo Flick un caso di scuola e mostra esattamente ciò che il giurista critica: l’uso del diritto penale in chiave preventiva e discrezionale. L’azienda non è accusata di aver sfruttato lavoratori, ma di non aver vigilato abbastanza su un fornitore. E’ la logica dell’“agevolazione colposa”, che punisce senza dolo, solo per una colpa ambientale presunta. E in questa logica, misure come sequestri o amministrazioni giudiziarie diventano sanzioni anticipate, prima di un processo. Si passa, dice Flick, dal reato accertato al giudizio di contesto, dove la magistratura interviene per moralizzare il sistema più che per applicare la legge. E tutto questo mina il principio di legalità, genera incertezza giuridica, danneggia le imprese e scoraggia gli investimenti. L’effetto finale è un diritto penale simbolico, che sostituisce la politica e indebolisce lo stato di diritto. “Si sta applicando, con un certo compiacimento generale, un approccio nato per le misure di prevenzione antimafia. Originariamente quelle misure erano pensate per il controllo delle persone fisiche, poi queste misure si sono ampliate nel tempo e si sono sviluppate come strumenti per monitorare le infiltrazioni mafiose nella società apparentemente sana. Il problema è che tali misure prevedono pochissime garanzie: si applicano non in presenza di un reato commesso, ma sulla base della pericolosità presunta del soggetto. Non sono misure di sicurezza successive a un reato, bensì strumenti che agiscono sul sospetto. Questo ha portato a una dilatazione del concetto stesso di ‘prevenzione’ e a uno spostamento sempre più marcato sul piano patrimoniale. Col tempo, le misure di prevenzione sono diventate sempre più patrimoniali: si guarda da dove arriva e dove va il denaro. Il paradosso attuale è che si applicano misure di prevenzione al denaro anche indipendentemente da chi lo riceve, con una logica di controllo pervasiva. E nel caso milanese, ad esempio, si esercitano misure di prevenzione estese, come l’amministrazione giudiziaria, anche quando non vi è la prova di un reato. E quando si crea un meccanismo in cui, applicando norme sulla prevenzione, si arriva a sequestrare o a intervenire giudiziariamente in assenza di reati accertati, si guarda più al risultato finale o al consenso di tutti, complice la ‘acquiescenza coatta’ del soggetto inquisito”.

Il secondo punto che sta a cuore a Flick riguarda un altro tema delicato che ha colpito Milano negli ultimi giorni: le indagini portate avanti dalla procura sul tema dell’urbanistica. A differenza del caso precedente, dice Flick, su questo tema vi è una questione di fondo importante. Il principio costituzionale impone che il reato debba essere previsto dalla legge prima di essere commesso, e che non debba essere troppo creativo, e sull’urbanistica i reati contestati, in alcuni casi, ci sono, sono comprensibili, sono chiari. Non si tratta di dire che gli indagati siano davvero colpevoli, questo sarà il tempo a dircelo, ma si tratta di distinguere tra un magistrato che si occupa solo di fenomeni e uno che si occupa anche di fatti. Ma anche qui, dice Flick, un rischio c’è. Ed è evidente: il pericolo che si affermi una visione giustizialista con cui si finisce per criminalizzare la politica urbanistica in quanto tale. Flick osserva che spesso il Parlamento interviene con “interpretazioni autentiche ex post” per legittimare decisioni urbanistiche già prese, col rischio di piegare la legge alle esigenze di progetti controversi. Il passaggio dalla pianificazione all’indagine giudiziaria, però, avviene spesso in un contesto normativo confuso e frammentato, che non distingue abbastanza tra scelte discutibili e comportamenti illeciti. E quando la magistratura estende troppo i confini del penalmente rilevante per colmare i vuoti della politica o della legge, “si corre il rischio di sostituire alla decisione democratica il sospetto”. Il paletto è necessario invece: “Un conto è occuparsi di un eventuale reato della politica, un altro è criminalizzare il mestiere della politica”.

Il terzo punto affrontato da Flick riguarda la recente sentenza della Cassazione (di due giorni fa) sul caso del pullman privo di freni precipitato a causa di un guardrail difettoso ad Avellino, nel 2013. In quella sentenza, dice Flick, la Cassazione ha accertato la responsabilità dei vertici dell’impresa incaricata, ridefinendo in modo molto ampio – forse troppo – il concetto di “organizzazione d’impresa”. Il rischio, dice Flick, in casi come questi “è che si passi da una responsabilità per colpa a una responsabilità oggettiva: non rispondi più solo se hai agito con dolo (cioè con intenzione) o con colpa (cioè per negligenza o imperizia), ma anche se hai semplicemente contribuito, in modo remoto o indiretto, a un evento dannoso. Si tratta di una logica pericolosa, perché introduce elementi di responsabilità non legati a un comportamento diretto o a una violazione di regole, ma a una costruzione giuridica astratta del rischio”. La questione è evidente ed è la stessa che mesi fa si è posto su queste pagine il nostro Ermes Antonucci: “Com’è stato possibile che la giustizia abbia finito per attribuire all’amministratore delegato di una società di quasi diecimila dipendenti, e che gestisce circa 2.800 chilometri di autostrade, la responsabilità per il cedimento del guardrail di un viadotto? “Quando la cultura di riferimento della giustizia diventa quella del non poteva non sapere, non poteva non vigilare, non poteva non essere a conoscenza, il rischio è che si affacci un’idea di giustizia che smette di occuparsi dei fatti verificati e inizia a occuparsi di sospetti, di teoremi, di fenomeni. Ciò che fra l’altro testimonia l’ignoranza reciproca che vi è tra l’impresa, la sua organizzazione e l’attività del magistrato”.

Conclude Flick: “C’è una storia che racconto spesso a chi si avvicina al mondo della giustizia e a chi cerca di capire quali sono gli errori che vanno evitati quando si ragiona attorno a questo mondo. E’ la storia di un nonno che amministra la giustizia sotto l’albero. Quel nonno un giorno sceglie di portare sotto l’albero il nipotino. E con il nipotino inizia a giudicare un caso. Arriva un contendente e dopo pochi minuti di colloquio il nonno dice: ‘Hai ragione, vai pure’. Arriva l’avversario e dopo pochi minuti dice anche a lui: ‘Vai pure, hai ragione tu’. Il nipote non capisce e chiede: ‘Nonno, come fanno ad avere tutti ragione? Non si capisce nulla’. Il nonno ci pensa un po’ e risponde dicendo: ‘E’ vero, hai ragione anche tu’. Morale della favola. La giustizia deve tornare a discutere di fatti concreti, deve occuparsi di non farsi strumentalizzare, deve imparare a giudicare senza farsi prendere dalla volontà di avere un consenso diffuso, e la politica deve imparare a riconoscere quando vi è una giustizia che si basa sui fatti e quando invece vi è una giustizia che si occupa di fenomeni, ovvero di etica. E’ un duro lavoro ma è l’essenza della nostra democrazia. Vale la pena pensarci e magari persino provarci”.

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