La lezione di Ingrao al Pci: la lezione movimentista del grande dirigente comunista

10 anni fa la scomparsa
Convinto che il partito dovesse andar oltre la mirabile giraffa voluta dal Migliore, intuì che la democrazia dovesse essere rinvigorita da forme di partecipazione che mettessero al centro giovani e lavoratori...

Accennando a Berlinguer il dissenso in merito alla strategia del compromesso storico appena annunciata su Rinascita, Pietro Ingrao non ricevette una risposta articolata dal segretario. E, per questo silenzio, annotò di non essere turbato giacché “d’altra parte io ero allora solo uno sconfitto” (Volevo la luna, Einaudi, p. 358). Il chiaro riferimento del grande politico, di cui ricorre il decennale della morte, era al duro e “senza alcuna dolcezza” scontro di fazione che, avviato nel 1962, lo vide soccombere ancor prima delle punizioni comminate nell’XI Congresso.
Ancora vivo Togliatti, la sua sintesi culturale, non più granitica come una volta, era stata fiaccata da attacchi molteplici. Attorno all’identità, ai classici, ai soggetti sociali, alle appartenenze di campo, al modello di partito, alla interpretazione del caso italiano non esisteva più un impianto di pensiero capace di unificare i diversi linguaggi. Se dal “centro” e dalla “destra” di Botteghe Oscure piovevano le accuse di fughe in avanti dall’intonazione gauchiste, a un vecchio quadro come Arturo Colombi, rammenta Ingrao, il dirigente in odore di eresia per il suo movimentismo poteva apparire come “un intellettuale un po’ insicuro, in fondo di destra”. Sulla pluriennale guerra di successione incombeva un riflesso d’ordine che mise insieme le forze provenienti da aree tra loro lontane su aspetti rilevanti ma desiderose di respingere anzitutto la penetrazione di codici eccentrici. Ricorda Ingrao: “Anni più tardi, in un incontro privato a Genzano, Longo mi disse con grande onestà che era stato ingannato sulle ambizioni mie di diventare segretario” (Memoria, Ediesse, p. 120).
A distanza di tempo, Ingrao tende a presentare quella della guida del partito come una “questione che stava nella luna: per conto mio sapevo benissimo di essere parte di una piccola minoranza” (ivi). Sta di fatto che, per l’enorme fascino generato nel cuore della militanza, nonché per il carattere sistematico e organico delle discontinuità ideali e organizzative evocate, la posta in gioco delle zuffe alla fine coinvolgeva di riflesso anche il nodo della leadership. Cresciuto dentro l’“originale e drammatico” paradigma togliattiano (già nel ’56 era in Direzione e in Segreteria), Ingrao non si limitava a fornire una versione più di sinistra dell’alchimia del Migliore. Anche Amendola, il cui vocabolario era condito con i ritrovati protettivi di un orgoglio bolscevico, andò oltre il partito nuovo, ma il suo sguardo era rivolto a una nuova formazione socialista. Ingrao, invece, si era spinto al di là del progetto togliattiano – di cui valorizzava in ogni caso i capolavori della “giraffa”, della svolta di Salerno e della redazione del testo costituzionale – nel solco dell’identità comunista ridefinita. In una certa misura, con la potatura dello storicismo e dei residui dello stalinismo, anticipava di lustri l’89, senza però l’irreparabile tradimento simbolico ordinato nella damnatio dissolutiva della Bolognina.
In Masse e potere (Editori Riuniti, p. 125) Ingrao esplicita i cardini del suo modo di intendere la politica. Sotto qualche profilo, sembra in sintonia con talune istanze del marxismo italiano degli anni 60 là dove recupera “una critica di fondo che alla democrazia rappresentativa – o più precisamente alla liberaldemocrazia – è stata fatta e da Lenin e da Marx e in un certo quadro da Rousseau”. Gli istituti della mediazione consensuale, la funzione del parlamento come organo centrale di sintesi-progetto, devono essere integrati con l’apertura di forme di partecipazione, deliberazione, decentramento, autonomia sociale, controllo operaio. La pura difesa dello Stato di diritto liberale, colpito dalle regressioni autoritarie dei governi centristi e dalle invasioni del “totalitarismo clericale”, non poteva definire una strategia attenta alle trasformazioni in corso nella fabbrica, nella famiglia, nella cultura. A causa di questo unilaterale ripiegamento “venne a mancare qualcosa di essenziale per la strategia togliattiana” (p. 53). Entro le dinamiche contraddittorie del neo-capitalismo, con l’irruzione dell’universo dei consumi opulenti, non reggeva più neppure la visione rituale dell’Italia come regno dell’arretratezza, del ristagno, della rendita monopolista. Nel cliché sulla patologia tutta mediterranea affiorava “un certo offuscamento di quella costante tendenza togliattiana a intendere le mutazioni” (p. 58).
Ardua diventava, in questo quadro, la sostenibilità dell’antica consuetudine del Pci a “scavalcare i confini della classe, a nutrire l’ossessione delle alleanze, a dilatare nel popolo i luoghi e i soggetti della protesta sociale” (Memoria, p. 141). Occorreva la sperimentazione di proposte inedite per decifrare il nuovo modello di sviluppo, con la razionalizzazione dello Stato-macchina gestore del piano e anche tessitore di pratiche micro-corporative per soddisfare gli appetiti di un governo debole diluito in “fortezze separate”. Per Ingrao era imprescindibile anche l’attenzione a figure letterarie situate oltre il vetusto archetipo carducciano, così come gli esercizi di governo pubblico dell’economia diretti al concepimento di una transizione di sistema sociale. In tale crocevia “entrarono con forza nel dibattito figure anche molto diverse, come Tronti, Fortini, Umberto Cerroni” (Volevo la luna, p. 315).
Spinto da una “ostinata pratica dubitativa” dinanzi alle novità, Ingrao ha dialogato, tra gli altri, con La Malfa sulle tematiche economiche, e durante la fruttuosa stagione keynesiana ha affinato la necessità di “aggiornare i miei immaturi saperi”. Non mancavano punti fermi nella sua metodica cartesiana. La precoce agenda neo-comunista prevedeva la resa dei conti con le pratiche dei “regimi collettivistici autoritari” (Masse e potere, p. 146). Il che non comportava il venir meno dell’attenzione alle grandi lotte di liberazione dall’imperialismo. Peraltro “la leggenda della Cina di Mao” aveva per lui un che di mitologico in quanto “il movimento socialista e comunista in Italia è stato intriso di terra, affondato nelle campagne, segnato dai suoi simboli e linguaggi” (Memoria p. 82).
Assai forte era in Ingrao il trascinamento verso il consiliarismo del soggetto operaio in marcia per il mutamento. “I cortei di metalmeccanici – scrive – erano più secchi, più imperiosi di quelli di partito”. Anche il lessico risultava semplificato e conquistava l’operaio massa grazie a slogan efficaci. Il Pci invece era più lento, prudente, e anche nei comizi si concedeva “un lungo ragionamento” (p. 145). La centralità operaia non sbiadiva la sintonia con i movimenti giovanili, che non erano “devianza, esagerazione soggettiva”, ma rappresentavano l’attenzione ai beni pubblici e comuni. Tutto ciò postula una critica del partito sensale volto interamente alla empirica gestione delle risorse, come quello raffigurato da Pizzorno. Recuperare una vocazione progettuale del partito era essenziale per recidere le schematiche contrapposizioni tra il sociale e il politico (cui inclinava in ultimo anche Trentin, che in nome della società civile faceva un falò del socialismo da Lassalle a Gramsci, p. 178).
Ripensando all’occasione di grande innovazione che si era affacciata, Ingrao trovava barocche alcune dispute di allora. E si chiedeva se nella formula, poi dimenticata, di “transizione al socialismo” non ci fosse un che di “utopico o di survalutazione degli eventi”, dal momento che l’Italia era “solo un tassello dell’Occidente” (p. 119). Rimane il fatto che quella stagione consentiva ancora delle grandi riforme di struttura, in seguito rese più problematiche dalla globalizzazione dei mercati, dalla controffensiva annunciata con la Trilaterale. Il vuoto di elaborazione non è stato riempito, e ricorrenti sono diventate le scorciatoie se non le fughe nella rimozione. Il piglio combattivo del secondo Berlinguer è giunto anch’esso tardivo, con la metamorfosi di un tattico totus togliattiano che “a un certo punto farà appello alla risorsa etica”. Il successivo nuovismo, è questa la convinzione che tormentava lo “sconfitto”, annichilisce tutto. Ben altra cosa era, a metà degli anni 60, quella innovazione di cultura, di repertorio sociale-identitario e di organizzazione che fece naufragio quando urtò contro il gran rifiuto.
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