L’asse Meloni – Tajani contro Salvini: no al condono

Rissa sul fisco
Scontro sul tesoretto da 8 miliardi. Tajani, forte dell’appoggio di Meloni, avverte: “Va fatto prima il taglio dell’Irpef”. Ma la Lega: “Decide Giorgetti”

Il cdm, ieri, si è occupato di fisco. Il decreto in 18 articoli spazia in campo vasto. Concede ai comuni più tempo per le delibere sull’Imu, elimina la tracciabilità dei pagamenti per viaggi di lavoro all’estero, evita di prorogare la sugar tax. Glissa alla grande sul nodo della discordia che anche ieri ha portato Tajani e Salvini, i vicepremier, a un passo dalla rissa.
Tajani punta i piedi: i 6 miliardi di tesoretto nella cassaforte del ministro dell’Economia vanno impiegati per tagliare l’Irpef, portandolo dal 35 al 33%. È il cavallo di battaglia di Fi, che deve poter dire di aver se non proprio tagliato almeno limato le tasse per il celebre e celebrato “ceto medio”, anche se i dati dicono invece che le tasse con il governo di destra sono ulteriormente aumentate. Il leader azzurro ha dalla sua la premier e non è un appoggio da poco. Salvini, però, non si arrende, reclama a voce altissima la contemporaneità tra la riforma di Tajani, l’Irpef, e la sua, la pace fiscale. Può contare sul sostegno del ministro dell’Economia Giorgetti e neppure quello è un appoggio trascurabile. Tajani non sente ragioni: “Io non sono contrario alla rottamazione delle cartelle ma quella è una misura una tantum mentre il taglio dell’Irpef è strutturale. Dunque prima tagliamo l’Irpef e diamo una mano al ceto medio, poi la pace fiscale”.
Salvini non ci sente: “A decidere è Giorgetti. La pace fiscale porta soldi allo Stato, quelli che servono per tagliare le tasse. Le due cose vanno insieme e comunque c’è il ministro dell’Economia a occuparsi di queste materie”. Muro contro muro con il ministro dell’Economia in mezzo, impegnatissimo nella missione impossibile di trovare i soldi per varare contemporaneamente due misure che, insieme, valgono il doppio di quel che ha in cassa. La contingenza non aiuta: la fine di giugno sarà il momento della verità per una voce di spesa in prospettiva ben più pesante di quelle intorno alle quali infuria la rissa oggi. Rutte, il segretario generale della Nato che ieri era a Roma per il vertice dei ministri degli Esteri del cosiddetto formato Weimar plus (Germania, Francia e Polonia più Uk, Italia e Spagna) ha ribadito, anche nell’incontro a Chigi con la premier, che l’obiettivo è il 5% del Pil devoluto in spese militari o parallele. Una quarantina di mld l’anno se va bene.
L’Italia non può dire di no. Può cercare di prendere tempo dilazionando il termine, che per Rutte dovrebbe essere il 2032, fino al 2035. Può chiedere “flessibilità”, cioè una tempistica non troppo ultimativa nelle tappe verso il glorioso traguardo finale e una notevole elasticità da parte dell’occhiuta Europa. Può provare a contrabbanddare come “spese militari” investimenti di ogni sorta. Lo sta già facendo per portare entro l’anno la spesa Nato al 2% del Pil e lo farà ancora di più in futuro. Ma anche con tutte queste parziali scappatoie lo sforzo finanziario resterà titanico. Tirare fuori anche i pochi miliardi che servono per far marciare su binari paralleli Irpef al 33% e condono, perché questo s’intende con pace fiscale, è un’impresa proibitiva.
Ma la corsa alle armi, che partirà ufficialmente con la raffica di vertici internazionali in calendario per l’ultima decina di giorni di giugno, incrocia e impatta sugli equilibri di maggioranza anche in un altro senso. Salvini si è sempre detto contrario al riarmo e difficilmente si riuscirà a rabbonirlo travestendo da spesa per le armi il suo ponte sullo Stretto. Ieri il ministro della Difesa Crosetto, rispondendo al capogruppo Avs al Senato De Cristofaro, ha confermato che ogni Paese dovrà decidere se adeguarsi alla tabella di marcia disposta da Rutte o meno e che a farlo sarà, come è naturale che sia, il Parlamento. Sottrarsi alla “richiesta” della Nato, che in realtà è un ordine dettato da Washington, sarebbe per la credibilità del governo italiano e della sua premier devastante. Salvini, con la minaccia di dare seguito a quanto sempre detto votando contro l’impennata della spesa per le armi, ha in mano un’arma reale per contrattare sul suo condono. Il problema è che per il governo quell’arma potrebbe rivelarsi letale e finale per tutti: per Salvini adoperarla sarebbe un rischio grosso.
l'Unità