I trumpiani italiani non ridono più


Foto Ap, via LaPresse
l'editoriale del direttore
Le figurine di The Donald sono sparite e per Meloni ogni giorno è una maledizione. Sovranismo da rinnegare, dazi, spese militari e debolezza in Europa. Quanti guai (Polonia compresa). Come uscire dall’imbarazzo
Sarà certamente un caso, e forse i maliziosi siamo noi che ci divertiamo a notare dettagli minimi, probabilmente irrilevanti. Sarà certamente un caso, è ovvio, ma da qualche tempo a questa parte la galassia allegra formata dall’armata Brancaleone dei trumpiani italiani ha smesso di utilizzare la foto del presidente americano come un santino, come un protettore, e ha iniziato a utilizzarla con più prudenza, con più imbarazzo, arrivando fino al punto di trattare Trump come si fa qualche volta alle cene di Natale con lo zio un po’ suonato: ha detto quella cosa, sì, è vero, l’abbiamo sentita tutti, ma sono convinto che volesse dire un’altra cosa, che non volesse dire esattamente quello che ha detto, e vedrete che alla fine, anche se quella cosa l’ha detta, in verità non è vero che la pensa davvero, e in ogni caso non vi preoccupate, ci penserò io a fargli cambiare idea.
Sarà certamente un caso, è ovvio, e sarà solo un passaggio casuale, solo un elemento momentaneo, ma l’ascesa del trumpismo, e l’onda lunga delle sue minacce all’Europa, e dunque all’Italia, ha messo Meloni in una situazione difficile, all’interno della quale ogni giorno la premier italiana non solo maledice il giorno in cui Donald Trump ha vinto contro Kamala Harris ma ogni giorno è lì a trovare un modo per leccarsi le ferite, e contare tutti i graffi generati dalle zampate dell’amico ’mmericano. E le zampate, e le ferite, sono molte. Trump, in fondo, si dirà, cosa ha fatto di male a Meloni? Tanto.
L’ha costretta a dover trovare un modo per confermare ogni giorno il suo europeismo, la sua scelta anti sovranista, che prima di Trump era un elemento acquisito e che dall’arrivo di Trump in poi è divenuto un passaggio più difficile da conquistare (citofonare per esempio a Emmanuel Macron, che Meloni incontrerà oggi).
L’ha costretta a dover fare i conti con una minaccia economica che un paese a crescita bassa si sarebbe volentieri voluto evitare, parliamo dei dazi, e i dazi sono diventati a loro volta un elemento divisivo all’interno della coalizione, e hanno avuto l’effetto di mostrare e acuire le distanze presenti nella compagine di governo (chiedere ad Antonio Tajani).
L’ha costretta a dover mettere da parte nel bilancio delle prossime leggi di stabilità una quota di spese militari che Meloni si sarebbe volentieri evitata, e per quanto fosse doveroso aumentare le spese per la Difesa probabilmente la premier italiana avrebbe avuto idee diverse per spendere quei diciotto miliardi di euro in più che l’amico americano ha costretto a stanziare ogni anno al governo italiano per non essere in difetto con gli altri partner europei (chiedere a Giancarlo Giorgetti).
L’ha costretta a dover ricordare, in ogni occasione utile, che sull’economia il governo non può essere trumpiano, nel modo più assoluto, e che essere trumpiani in economia significa essere favorevoli a penalizzare le imprese italiane, colpite come le imprese tedesche dai futuri dazi trumpiani in modo significativo (chiedere cosa ne pensano oggi gli industriali italiani dei trumpiani italiani).
L’ha costretta a dover ricordare, a ogni occasione utile, quello che Meloni & Co. tendono sempre a non voler ricordare, ovverosia che quando vi è una minaccia per l’Italia quella minaccia occorre affrontarla non puntando sul sovranismo nazionalista ma scommettendo sul sovranismo europeista (con tanti saluti al salvinismo dei Patrioti europei).
L’ha costretta a giocare sulla difensiva in Ucraina, e la difesa di un popolo di eroi, come Meloni aveva definito l’Ucraina prima dell’arrivo di Trump, da punto di forza assoluto è diventato un punto di debolezza, un elemento utile a misurare non la crescita della credibilità internazionale di Meloni ma il suo possibile contrario (se ci fosse un’opposizione degna di questo nome, su Kyiv Meloni sarebbe già stata inchiodata).
L’ha costretta a giocare di rimessa, in Europa, e trovandosi in mezzo tra chi, in Europa, chiede di non spingere troppo contro Trump e chi, ovvero tutti i principali paesi europei, ha utilizzato la minaccia trumpiana per ridare slancio alle proprie leadership ammaccate (modello funambolo).
L’ha costretta a dover riguardare con preoccupazione all’Africa, e in particolare al Sahel, perché gli aiuti che Trump ha scelto di cancellare all’interno del programma UsAid sono aiuti che in quella regione coincidevano con programmi di supporto alla sicurezza in Niger, Burkina Faso e Mali, così come iniziative per la mediazione comunitaria, e la decisione di congelare tutti i contributi multilaterali in attesa della revisione strategica che ha lasciato l’Unhcr con un buco di almeno 400 milioni per il 2025, dunque con tagli immediati ai programmi per i rifugiati in Etiopia, Sudan del sud, Ciad, Nigeria, interruzione delle forniture alimentari in diversi campi, sospensione dei progetti di reinserimento volontario nei paesi d’origine (chiedere all’intelligence).
Per Meloni, dunque, è un problema dover ammettere che il primo trionfo della destra Maga in Europa sia avvenuto per mano di un suo alleato, il PiS, che ieri si è aggiudicato il ballottaggio per le presidenziali in Polonia, ed è imbarazzante per Meloni dover rivendicare la vicinanza al presidente polacco non tanto per ragioni di filoputinismo, come poteva essere per il candidato romeno, George Simion, sconfitto due settimane fa, ma perché il PiS è tornato a essere un partito nazionalista, critico con l’Europa, contrario a una maggiore integrazione, e la linea del PiS di oggi è un ostacolo nel tutelare l’interesse europeo, senza il quale è difficile tutelare l’interesse nazionale dalle aggressioni trumpiane.
Arrivati a questo punto del nostro ragionamento si potrebbe dire che la categoria dei delusi da Trump rientra nella categoria di tutti coloro che nei mesi passati hanno cercato di far prevalere il Trump percepito su quello reale. Ma senza addentrarci in quella dimensione ai trumpiani italiani si potrebbe far notare un dettaglio: il trumpismo, per l’Italia, non è solo tossico, non è solo nocivo, non è solo pericoloso, non è solo autolesionista, ma è anche respingente, è repellente, è controproducente, e in questo senso per Meloni la sfida non può essere quella di provare a giocare il ruolo del pontiere, della mediatrice, della tessitrice, ma deve essere quella di provare a costruire una nuova identità, con cui provare a osare, a giocare d’attacco e a trovare una chiave per uscire dall’imbarazzo, per non giocare di rimessa e per non trasformare la sua saggia prudenza in un sinonimo di immobilismo. Il trumpismo, per i nemici del trumpismo, è una rendita di posizione in tutto il mondo. Per gli amici del trumpismo che non vogliono morire trumpiani è arrivato il momento di pensare se esista o no un modo per uscire dalla stagione dei Peter Pan e provare finalmente a diventare grandi.
Di più su questi argomenti:
ilmanifesto