SCUOLA/ Dietro il paravento del 6 in condotta, l’ombra di riforme assenti

Non basta il “ritorno all’ordine” che si pensa di garantire con il 6 in condotta. Ripristinare l'autorevolezza dei docenti nella scuola chiede di più
La proposta del ministro Valditara di inasprire la valutazione sul comportamento degli studenti, salutata favorevolmente da chi anela a un “ritorno all’ordine”, preoccupa invece chi ancora desidererebbe che la cifra dei rapporti fra docenti e studenti (ma diciamo pure tra tutti coloro che vivono a scuola gran parte del loro tempo) sia improntata più all’autorevolezza e meno all’autoritarismo.
Le due parole hanno la stessa origine latina, derivano dal verbo augeo, “crescere”, ma anche “far crescere”. Nella lingua italiana la differenza è nettissima: l’autorevolezza si esprime innanzi tutto con la stima per chi ci è affidato, l’autoritarismo no, non prevede stima, piuttosto esprime un profondo senso di superiorità in chi esercita l’autorità e, insieme, una sostanziale indifferenza per il sottoposto.
Abbiamo respirato autoritarismo in alcuni contesti scolastici del passato, ma più ancora in ambito militare o in contesti lavorativi fortemente gerarchici.
Non di questo la scuola italiana, soprattutto quella statale ma non solo, ha bisogno. Non si tratta di celebrare una scuola buonista, in cui il docente, come tanta pedagogia ha sostenuto, sia un “pari”.
Che il docente stia pure in cattedra, ma in una posizione non repressiva bensì correttiva, di stima e di reale valorizzazione di chi gli sia affidato. Proprio l’attuale contesto, soprattutto quello della scuola superiore, quello della “gioventù bruciata” dei nostri anni, ha un enorme bisogno di adulti autorevoli.
Lo si è visto poco tempo fa a Roma: un milione di giovani in cammino e in ascolto di Papa Leone, capace di destare la passione e l’intelligenza di tantissimi.
Senza pretendere che tutti gli operatori della scuola abbiano il carisma educativo di un Pontefice, dobbiamo seriamente interrogarci sulle caratteristiche della professionalità di docenti e dirigenti nell’attuale contesto.
Abbiamo bisogno di docenti professionisti che amino il proprio lavoro, che conoscano profondamente la disciplina che insegnano, che ne sappiano comunicare con chiarezza i nuclei fondativi, che sappiano valutare con rigore e trasparenza.
Professionisti appassionati al mondo giovanile, ma anche all’attualità e alla ricerca; che desiderino aggiornarsi e che siano capaci di costruire legami fecondi con gli altri adulti.
Sono molti i nostri laureati che possiedono queste caratteristiche, ma pochi ormai scelgono l’insegnamento come professione.

Ragazze e ragazzi di questa levatura preferiscono cimentarsi con professioni meglio remunerate e premianti, magari anche con prospettive di carriera un po’ meno “piatte” di quelle scolastiche. I recenti concorsi hanno cercato di dare più spazio alla dimensione didattica della preparazione, ma è “sul campo” che si verifica quella professionalità a cui si faceva prima cenno.
Purtroppo, una volta “arruolati”, anche giovani docenti, pur preparati ma non sufficientemente autorevoli, ricopriranno per anni il loro ruolo, demotivati e purtroppo inefficaci.
Vogliamo poi accennare alla diffusa depressione o peggio al burnout diffuso fra i docenti italiani? Purtroppo la professione del docente (e del dirigente) necessita di competenze ben lontane da quelle di qualche decennio fa, e non si tratta solo di quelle digitali.
Forse va sottolineato ancora una volta come l’insegnamento sia una vocation (usiamo pure l’anglismo), esige un physique du rôle non acquisibile solo attraverso lo studio.
Ma chi possedesse queste caratteristiche sarebbe interessato ad anni e anni di precariato, a una retribuzione decisamente inferiore a tante altre, alla assenza di sviluppo? Il confronto con l’estero è sconfortante. All’estero, in molti Paesi, in Europa e oltre, in Canada per esempio (con cui spesso ci confrontiamo) la carriera esiste, la remunerazione è più dignitosa, con un orario nella maggior parte dei casi più impegnativo, ma che tiene conto anche degli spazi relativi a valutazione e aggiornamento.
Da noi (penso alle famigerate 18 ore settimanali) l’orario cattedra è relativamente ridotto, ma il problema sono le ore di attività cosiddette funzionali e collegiali, ancora eredi dei decreti delegati anni 70.
Di una riforma in questo senso si sente enormemente bisogno; sarebbe sufficiente che un professionista dell’organizzazione facesse capolino in qualsiasi collegio dei docenti per coglierne la struttura anacronistica, così come nei consigli di classe aperti, eredi di una tensione partecipativa ormai ampiamente disattesa soprattutto nella scuola superiore.
Vengo infine, in cauda venenum, alla figura del dirigente scolastico, ago della bilancia dell’offerta formativa, ma ormai sovraccaricato di impegni di carattere tra il burocratico e l’amministrativo, impegnato in attività che in qualsiasi organizzazione complessa non sarebbero certo in carico al direttore generale.
Nei casi in cui ci sia un buon coordinamento con il DSGA (direttore dei servizi generali e amministrativi) almeno la quotidianità può essere gestita; in casi contrari (e sono molti) il sovraccarico è insostenibile, alto il rischio di errore e di conseguente contenzioso, subordinata alla dimensione organizzativa la prospettiva pedagogica, culturale, relazionale (rapporti essenziali con territorio, imprese, università).
Meglio sorvolare, per evitare inutili polemiche, sul ruolo delle rappresentanze sindacali, ancora troppo poco sensibili a cogliere le attuali urgenze del sistema.
In sintesi, questi si ritiene siano fattori irrinunciabili: confronto con le nazioni in cui il modello scolastico sia più efficace ed efficiente, incrementi retributivi che rendano la professione interessante anche per giovani eccellenti e versatili, ripensamento degli organi collegiali, valorizzazione della figura del DSGA e della segreteria così da consentire al dirigente di poter essere il garante dell’offerta formativa e del successo dei ragazzi e ragazze che gli sono affidati.
Non sono solo i ragazzi a dover cambiare atteggiamento; i giovani, quando incontrano proposte dense di fascino, seguono. Dobbiamo impegnarci perché il loro cuore e la loro ragione trovino adulti capaci di intercettarli.
Forse qualcuno può ancora illudersi che sia il timore di un 6 in condotta a generare nei nostri adolescenti curiosità e desiderio, premesse ineludibili del percorso della conoscenza? Un 6 in condotta per di più assegnato a studenti che non hanno alle spalle adulti disponibili alla relazione costruttiva con la scuola, Adulti a loro volta travolti da profonde emergenze, persone fragili, che preferiscono il conflitto (quanti ricorsi!) alle alleanze educative? Magari anche non di lingua italiana, quindi impossibilitati a una relazione efficace con l’istituzione?
Altre dovrebbero essere le misure che possano ridare energia e dignità alla nostra istituzione scolastica. La scuola ancora le attende.
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