Per fare del buon rap è davvero necessario insultare le donne?

Provocazione, rabbia, rime taglienti. Nel rap, il linguaggio crudo non è mai stato un semplice ornamento: è parte della sua identità, del suo DNA di genere sovversivo. Se ne parla spesso nel dibattito pubblico italiano: lo scorso Capodanno, ad esempio, il trapper Tony Effe è stato escluso dal concerto di Roma a causa dei suoi testi misogini. E recentemente si è tornati a parlarne per una violenza uscita dai testi e divenuta reale: il giovane rapper Faneto è stato denunciato dalla sua ex ragazza per minacce e percosse.
Questi episodi non sono eccezioni, ma sintomi di un nodo più profondo che riguarda il rapporto tra il rap e la rappresentazione del femminile. Fin dalle origini, il linguaggio del rap ha fatto della provocazione e della durezza la propria forza, ma oggi quella stessa forza rischia di rivolgersi verso il basso, trasformandosi in misoginia normalizzata. Ciò che un tempo era uno strumento di denuncia sociale è diventato, in molti casi, un linguaggio di potere, che riduce le donne a bersagli o trofei. Per capire come si è arrivati a questa distorsione, bisogna guardare alla storia del rap italiano - alle sue radici e alle sue trasformazioni.
Breve storia del linguaggio del rap italianoIl linguaggio crudo e violento è uno degli stilemi più riconoscibili del rap - che nasce in un contesti di marginalità segnati da povertà, discriminazione e rabbia sociale come forma di espressione autentica di una parte di popolazione “senza voce”. Le parole dure non sono gratuite, ma rappresentano un modo per restituire autenticità a esperienze di marginalità che la società tende a ignorare.
In Italia il genere mantiene inizialmente il suo carattere underground e sovversivo, in cui il linguaggio violento e volgare sfida i tabù dominanti e mette in luce le contraddizioni della società. Il rap emerge nel nostro Paese negli anni '90 come forma di espressione culturale nelle periferie urbane. Artisti come i Sangue Misto, Colle der Fomento, Frankie Hi-NRG MC e Assalti Frontali utilizzano il rap come strumento di denuncia sociale, affrontando temi come la disuguaglianza, la criminalità e l'emarginazione.
Con l'inizio del nuovo millennio, il rap italiano subisce una trasformazione significativa. La nascita di competizioni come Tecniche Perfette e 2TheBeat, insieme alla diffusione di internet e piattaforme come MySpace, contribuisce alla crescita commerciale del genere. Artisti come i Club Dogo, Clementino e Fabri Fibra iniziano a ottenere successo mainstream, adattando i loro testi e immagini per raggiungere un pubblico più ampio. E quando il genere inizia a diventare commerciale, i testi, gli stilemi e i riferimenti culturali rimangono gli stessi ma cambiano funzione. Al centro c’è passaggio da una rivendicazione collettiva a una rivalsa sociale personale, per cui il linguaggio del rap diventa lo strumento per affermare il proprio status.
Con l’arrivo dei social network e la popolarità di massa dei giovani rapper e trapper, che si trovano fissi ai primi posti delle classifiche musicali, la linea che divide artista e personaggio diventa sempre più sottile. I nuovi rapper e trapper italiani, come Sfera Ebbasta, Capo Plaza e Baby Gang, ma ancor di più Anna, Glocky, Tony Boy iniziano a costruire la loro immagine anche attraverso piattaforme come Instagram e TikTok, dove condividono aspetti della loro vita privata e professionale. Quasi costantemente sotto l’occhio del pubblico, che lo segue grazie a profili social costantemente aggiornati e connessi tra di loro, l’artista deve quasi incarnare il proprio ruolo, non solo rappresentarlo nelle occasioni artistiche. Il personaggio creato nelle canzoni non è più staccato dall’identità di chi quella canzone la canta.
Il linguaggio violento e misogino come marchio di fabbricaNel rap contemporaneo la violenza verbale simbolica si accompagna spesso ad un linguaggio misogino e sessista che ha portato spesso il genere ad essere oggetto di forti critiche da parte dell’opinione pubblica. Si usano spesso termini volgari e offensivi, sia in italiani che in inglese, per fare riferimento in generale alle figure femminili (che non siano le madri dei rapper, che nell’ultima generazione di artisti godono di grande centralità nella narrazione e di un'idealizzazione totale).
Spesso la narrazione portata avanti nei brani di artisti hip hop riduce la donna ad un oggetto sessuale (“Nel letto ho una rumena con la fragola e la panna / E ci potrei fare un figlio ma ci faccio una sborrata e basta”, ‘Tip Tap’ di Papa V, Nerissima Serpe e Fritu) e che rappresenta lo status (“Sc**iamo le vostre donne / E stupriamo i vostri beats”, ‘S.e.n.i.c.a.r’. di Marracash e Guè).

I soggetti femminili di cui si parla sono spesso ridotti a conquiste e come il denaro sono un mezzo per raccontare la scalata sociale del rapper in questione. In altri casi sono un attributo di altri da sminiure per offendere (“La tua ragazza con la gonna sembra un maschio scozzese”, ‘Fellini’ di Ernia e Kid Yugi). A questo si aggiunge in alcuni casi il fattore del razzismo e della feticizzazione delle donne razzializzate (“Che me ne frega se parla come Senegal / Ah ahah, sentila”, ma anche “Non la voglio bianca, Svezia, Malmo / Se non è già scura si abbona al solarium”, ‘S.e.n.i.c.a.r’. di Marracash e Guè).
La sessualità femminile viene nella maggior parte dei casi svalutata: non c'è agency da parte delle donne di cui si parla e quando c'è è dipinta in maniera negativa. Insomma una visione che si sposa perfettamente con la cultura del possesso. Nei casi peggiori, si mettono in scena nel testo vere e proprie violenze sessuali, come nel brano ‘Non è easy’ del rapper Shiva: “Se la tipa non vuole farlo se la sc***no i miei, le va male perché dopo se la scopano in sei”.
Ma è un genere davvero così misogino?È importante sottolineare che non tutto in rap si muove in questa direzione, ma questo rimane un elemento ricorrente e problematico all'interno di moltissime canzoni di successo soprattutto per un pubblico giovane e giovanissimo. A dimostrarlo è uno studio di Lara Della Schiava del 2025 che prende in considerazione un vasto corpus di brani di artisti e artiste rap attivi nel panorama musicale attuale. L’indagine, pubblicata sulla rivista Lingue e Culture dei Media, ha concluso che “circa un terzo dei testi contiene espressioni misogine, con una prevalenza di termini dispregiativi e riferimenti sessualizzanti” e che queste caratteristiche accompagnano con costanza il genere dagli anni ‘90 ad oggi.
Della Schiava nota anche una “correlazione diretta tra il livello di misoginia nei testi e la popolarità degli/delle artisti/e” ed è molto interessante una tendenza controintuitiva rivelata dallo studio: “Le canzoni d’amore con una connotazione positiva contengono una maggiore frequenza di termini derogatori rispetto a quelle con una narrazione negativa, suggerendo un uso normalizzato di espressioni sessiste anche in contesti affettivi”. In particolare, i riferimenti violenti sono molto presenti nei testi che fanno riferimento a relazioni finite.
Responsabilità artistica e libertà espressivaCome già detto, il rap è un genere che nasce i margini della società e a partire dalle sue origini ha in sé l’idea di provocazione, rottura dei tabù, sovversione delle norme sociali. Un linguaggio violento e volgare è rimasto fin dalle origini marchio di fabbrica della maggioranza della scena italiana. Tra i bersagli dei termini derogatori e offensivi ci sono lo Stato e il potere, in alcuni casi incarnato in sui rappresentanti oppure nelle forze dell’ordine, ma anche le classi sociali più ricche, figure della propria vita personale, rivali rapper e infine, ovviamente, le donne - reali o intese come generica categoria.
Tuttavia, quando il rap diventa cultura di massa, il peso simbolico del suo linguaggio cambia e la libertà d’espressione degli artisti deve confrontarsi con alcune responsabilità. Cosa succede quando un genere che nasce dagli oppressi diventa mainstream e quando uno dei suoi bersagli - in questo caso le donne e le ragazze - non è l’oppressore ma un’altra minoranza? La satira e la provocazione smettono di essere liberatorie e rischiano di trasformarsi in prevaricazione.
Un tempo il linguaggio del rap era un grido minoritario - ora è un linguaggio dominante, capace di plasmare comportamenti e immaginari collettivi. E così cambia il peso simbolico dei testi - che non sono più “sfoghi” di una sottocultura, ma rischiano di diventare modelli da imitare.
Non si tratta di chiedere agli artisti di censurarsi, ma di domandare loro di prendere consapevolezza della propria responsabilità comunicativa, che cresce al crescere del potere mediatico. Perché i giovani trapper di oggi non sono solamente degli artisti, ma delle vere e proprie icone mediatiche. Ed è importante sottolineare che quella di cui stiamo parlando non è una responsabilità individuale, ma condivisa: con le case discografiche, i management, l’industria,...
È così necessario insultare le donne per fare del buon rap?Ma cosa aggiunge al genere un linguaggio misogino? Non si tratta di una questione di rottura di tabù e sovversione. La misoginia non è un linguaggio di ribellione né di libertà, ma è un linguaggio di potere, che si sposa perfettamente con la cultura dominante. Gli "esclusi" o i ribelli - o chi si dipinge come tale - che la adottano finiscono per replicare una parte del sistema da cui vorrebbero uscire. Lo stesso vale per il rapporto con la ricchezza: chi viene (o dice di venire) da situazioni svantaggiate non denuncia più le disuguaglianze, ma celebra la propria ascesa individuale.
Dietro questa violenza simbolica si nasconde spesso una precisa performance di mascolinità: la necessità di esibire forza, controllo, virilità. Eppure il rap, per la sua natura linguistica e performativa, è anche uno spazio dove questi modelli possono essere riscritti.
L’autenticità e la performance: il potere trasformativo delle paroleIl rap è un genere che, fin dalle origini, ha avuto una forte connotazione maschile - anche se oggi questa tendenza sta lentamente cambiando. Tradizionalmente, mette in scena vere e proprie performance di mascolinità: virile, aggressiva, competitiva. L’immagine del rapper coincide con quella di un uomo che domina, conquista, non mostra debolezza. In questo contesto, il maschilismo non è un’eccezione ma la norma implicita del linguaggio.
Tuttavia, gli stessi codici del rap - la finzione, l’esagerazione, la teatralità - offrono anche la possibilità di una riscrittura. Se la mascolinità è una performance, allora può essere reinterpretata, ironizzata o ribaltata. Alcuni artisti ne sono consapevoli e giocano con la propria immagine pubblica. È il caso di Fabri Fibra, che con l’alter ego Mister Simpatia costruisce un personaggio volutamente estremo, arrogante, sessista e violento: una maschera che esagera gli stereotipi del genere fino a renderli quasi grotteschi.
Negli ultimi anni, nuove voci - comprese artiste donne e queer - stanno usando gli stessi strumenti linguistici del rap per ribaltare i ruoli di potere, appropriandosi di quella forza espressiva per raccontare un’altra idea di identità e di libertà. Il rap, da linguaggio di dominio, può così diventare un linguaggio di liberazione e di riscrittura del sé. In questa direzione si muove anche Nayt, che nel suo album ‘Un uomo’ si interroga su cosa significhi “essere uomini” oggi. Partendo dal riconoscimento di un’educazione maschile tossica - fondata sulla negazione delle emozioni e sulla mercificazione dei sentimenti - l’artista riflette su come la violenza diventi spesso l’ultima risorsa espressiva di una mascolinità fragile e in crisi.
All’interno di una scena in cui molti rapper sentono il bisogno di dimostrare forza e invulnerabilità, Nayt sceglie la vulnerabilità come forma di coraggio: usa la dimensione riflessiva del rap per aprire domande, anziché offrire risposte definitive. In questo modo, il genere ritrova la sua potenza originaria: quella di dare voce a chi, in un certo senso, non ne ha mai avuta - nemmeno dentro se stesso.
E allora, non ascoltiamo più rap?Il rap resta, prima di tutto, uno specchio della società: riflette contraddizioni, desideri e ferite collettive. Proprio per questo, è un genere che ha tantissimo da dire e che merita di essere ascoltato con attenzione e spirito critico. In un contesto in cui la provocazione è spesso confusa con la libertà, è importante saper distinguere tra denuncia e apologia, tra rappresentazione e imitazione. Raccontare la violenza non significa necessariamente celebrarla, ma ignorare le differenze rischia di normalizzarla.
Il rap, nella sua forza linguistica e performativa, ci invita a interrogarci: su chi parla, su chi viene rappresentato, e su che tipo di società produce e consuma certi immaginari. Non serve censurarlo, ma imparare a leggerlo - a discuterlo, a contestarlo, a riconoscerci (o non riconoscerci) in ciò che racconta. Così l’ascolto diventa un atto politico e culturale: non un gesto passivo, ma un’occasione per capire meglio noi stessi e il mondo che, anche attraverso la musica, continuiamo a costruire.
E, infine, si può scegliere. Si possono ascoltare - e quindi sostenere - quegli artisti e quelle artiste che cercano di dare al rap una nuova direzione: più consapevole, più inclusiva, più capace di raccontare la complessità del presente senza ridurla a forza o prevaricazione. Ogni ascolto è una forma di supporto e di partecipazione: decidere chi merita la nostra attenzione è anche un modo per immaginare che tipo di cultura vogliamo contribuire a far crescere.
Luce









