L’ORCHESTRA STONATA/ Il film in cui la musica unisce mondi lontani e diversi

Nel film “L’orchestra stonata”, due fratelli divisi in tenera età imparano da adulti a volersi bene. Grazie anche alla musica
Riproposta nelle arene estive, la delicata e divertente commedia drammatica L’orchestra stonata (En fanfare, nell’originale francese), del bravo regista d’Oltralpe Emmanuel Courcol, non può non incontrare il favore del pubblico, a patto che almeno un poco sia sensibile al fascino della musica, che è la chiave del film.
I protagonisti sono due fratelli che più diversi non potrebbero essere. In realtà non si conoscono affatto, perché vivono l’uno, affermato direttore d’orchestra, nella Francia elegante e in giro per il mondo; l’altro invece appartiene al proletariato del nord del Paese, dove con semplicità e ruvidezza suona nella banda del villaggio.
Improvvisamente però Thibaut, il direttore raffinato e vincente, stramazza al suolo durante una prova dei suoi numerosi concerti. Scopre così di essere gravemente malato e di avere bisogno di un trapianto di midollo. La sorella Rose potrebbe salvargli la vita, ma dagli esami del sangue si scopre che il suo patrimonio genetico non è affatto compatibile. Come mai? La rivelazione della verità è amarissima per il giovane musicista.
La sua accusa alla madre è perciò violenta. “La menzogna può uccidere”, le urla disperato quando scopre di essere stato adottato e per di più staccato da suo fratello perché sua madre, imprevedibilmente incinta di una bambina (Rose), proprio in contemporanea con la scelta dell’adozione, non se l’è sentita di accogliere due bambini. Il consanguineo dunque c’è, si chiama Jimmy e abita in una città di minatori della Francia del Nord, dove viveva la madre dei due fratelli.
Proprio lui, così diverso, cresciuto in una famiglia semplice ma affettuosa, cuoco in una mensa scolastica, suonatore di tromba nella banda del paese, potrebbe donare il midollo compatibile al giovane direttore malato di leucemia.
L’incontro-scontro avviene: l’intellettuale e un po’ snob Thibaut si reca con la sua richiesta angosciosa nel piccolo, proletario e un po’ volgare mondo di Jimmy, che con i suoi modi spicci e rozzi vorrebbe semplicemente mandarlo a quel paese. Infatti, come possono intendersi due quarantenni, ciascuno appassionato di musica a modo suo, quando il primo è il genio della musica classica, compositore e direttore d’orchestra nei più grandi teatri del mondo, mentre l’altro suona la tromba a orecchio in una banda di paese, dopo aver cucinato in mensa?
Eppure qualche punto d’incontro tra i due c’è, favorito dalla comune passione per il jazz e le splendide canzoni di Charles Aznavour e forse, se uno si salverà, l’altro potrà aspirare a una vita migliore.
Courcol non scade mai però in uno sviluppo scontato della trama che ci fa passare, invece, attraverso dialoghi niente affatto banali, dalle eleganti sale da concerto di Thibaut agli scioperi coraggiosi ma inconcludenti della cittadina di Jimmy, alla ricerca del valore biologico dell’identità fraterna, e al centro la domanda sul mistero dell’influenza determinante del contesto sociale.
Ma la musica sembra capace di superare tutto, i successi dell’uno e gli insuccessi dell’altro, i rancori profondi per le ingiustizie subite dal cuoco-musicista o l’imbarazzo per i privilegi in fondo immeritati del direttore d’orchestra che si è impegnato allo spasimo per emergere, ma è cresciuto in un ambiente borghese che l’ha favorito. Eppure anche Jimmy ha un meraviglioso “orecchio assoluto”, solo che nessuno se n’è accorto, neppure lui. Il suonatore di tromba ha solo una passione quasi viscerale per la musica, ma suona come può e dove può: in una banda.
Il finale commovente, sulle note ritmate del Bolero di Ravel è struggente e non permette di trattenere le lacrime: la musica ha un potere unificante travolgente e una banda di paese, magari un po’ stonata, può toccare vette insperate e sciogliere i cuori di orchestrali di professione, di un pubblico colto e persino degli spettatori del film meno melomani.
È la degna conclusione di una storia che di carne al fuoco ne mette molta, ma senza mai esagerare nei toni e negli stacchi tra temi eterogenei come la malattia, la famiglia, il lavoro, l’arte, l’affermazione sociale: un equilibrio perfetto, diremmo, che spazia nei campi più diversi ma sempre attuali.
Il dato biologico innanzitutto, con il suo ineliminabile valore, sia per le cure mediche (pensiamo all’indispensabile compatibilità per il trapianto, per esempio) che per le relazioni di consanguineità dentro e fuori ai rapporti familiari. Impressiona la riflessione che sorge spontanea confrontando la nostra società contemporanea, dove si nega con presunzione la rilevanza del dato biologico. Quando i due protagonisti scoprono di essere fratelli la loro vita cambia, fino a costringerli a ripercorrere le loro origini per comprendere le ragioni di padri e madri, da perdonare e accettare.
Gli sviluppi della vita sono davvero imprevedibili. Può così capitare che un patrimonio genetico fino a quel momento sconosciuto misteriosamente si imponga e unisca a un fratello che non si sapeva nemmeno di avere. Aldilà delle storie vissute, dei doni ricevuti o di cui si è stati privati, si possono sempre aprire nuovi orizzonti.
Anche se Thibaut sembra persino troppo sensibile e quasi supponente nel suo tentativo di accorciare le distanze col fratello, che appare invece istintivo, chiuso nel suo orgoglio un po’ rancoroso, la vittoria definitiva è proprio quella della musica. Pur praticata in modi molto diversi è come se affermasse con assoluta certezza che c’è la possibilità di un’armonia capace di valicare i confini e scaldare i cuori. In tempi difficili come i nostri un film come quello di Emmanuel Courcol ha il merito di farci riflettere con leggerezza, accarezzando la prospettiva di una vita che anche per noi non si arrenda alle inevitabili “stonature” degli imprevisti e delle difficoltà.
Apprezziamo i registi francesi anche per questa capacità di parlarci attraverso storie credibili, delicate, drammatiche ma mai disperate. I cineasti italiani hanno qualcosa da imparare dal cinema francese per rinnovare le commedie nostrane, a volte troppo superficiali o inutilmente prone all’ideologia dominante.
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