29 ottobre, è l’Internet Day. Sapete che il primo pc d’Italia nacque a Pisa?


Il primo computer nato a Pisa
Firenze, 29 ottobre 2025 – Oggi si celebra l’International Internet Day, che cade il 29 ottobre, data del primo messaggio scambiato tra due computer nel 1969. Ma c’è un’altra data che rappresenta una pietra miliare dell’informatica italiana: quella del 13 novembre 1961, quando, all’ombra della torre di Pisa, nacque il primo computer italiano.
Si trattava di una grande calcolatrice elettronica per ricerche scientifiche realizzata dal Centro studi dell’Università di Pisa, che quel giorno veniva inaugurata presso l’Istituto di Fisica alla presenza del Presidente della Repubblica di allora, Giovanni Ronchi e dei rettori di tutte le università italiane convenuti a Pisa. Grazie all’accordo tra Università di Pisa e Olivetti nasceva dunque il primo calcolatore per scopi scientifici costruito in Italia. Per molto tempo la nascita di Internet è stata celebrata come un’opportunità senza precedenti e come l’inizio di una nuova era, capace di aprire le porte a una vastità illimitata di informazioni, connessioni sociali e conoscenze. Negli ultimi anni, tuttavia, si è iniziato a riflettere anche sugli effetti della digitalizzazione sulla comunicazione, facendo emergere le vulnerabilità del mondo online e una crisi inaspettata che, nonostante la connessione costante, genera isolamento e ansia. In occasione della giornata di oggi, gli esperti linguistici di Babbel, l’app che promuove la comprensione reciproca attraverso le lingue, hanno analizzato una serie di termini usati per descrivere alcune dinamiche disfunzionali che possono sorgere dall’abuso della tecnologia e da una presenza online eccessiva. Dal "doomscrolling" alla solitudine condivisa: 7 espressioni per descrivere il rapporto con il mondo digitale. Se la rete e i social hanno trasformato le nostre abitudini, anche il linguaggio si è adattato per raccontare questi cambiamenti. Babbel offre una fotografia linguistica attraverso 7 espressioni che riflettono le ansie e le preoccupazioni nate dall’uso eccessivo delle piattaforme online. Doomscrolling: si intende l’atto compulsivo e incessante di scorrere, dal verbo inglese “scrolling”, e consumare notizie e contenuti di natura negativa o allarmante, come suggerisce il sostantivo “doom”, ovvero “sventura”. Sebbene la curiosità e la necessità di rimanere informati siano istinti naturali, quando si cade in un circolo vizioso di ricerca attiva di notizie negative, si rischia di provare ansia, stress e senso di impotenza. Il termine ha avuto origine durante la pandemia di COVID, quando era inevitabile sfuggire al continuo flusso di news negative che popolavano la rete e i media. Like loop: traducibile letteralmente come “il ciclo dei mi piace”, questo termine anglosassone viene utilizzato per descrivere il bisogno “spasmodico” di alcuni utenti di ricevere un “mi piace” dopo aver pubblicato incessantemente sulle piattaforme digitali, alla ricerca di convalida sociale e la gratificazione che ne deriva. Questo circolo vizioso viene attivato da quello che gli esperti chiamano “dopamine rush”: un aumento di dopamina in risposta ad attività che generano piacere nel cervello e che può portare ad un vero e proprio attaccamento emotivo, spesso problematico, nei confronti delle dinamiche dei social media. Filter fatigue: la “stanchezza da filtro” è la denominazione che viene attribuita a quel senso di sfinimento dato dalla ricerca costante di curare, filtrare e modificare la propria immagine e presenza sulle piattaforme social. La necessità di dover mostrare il lato migliore di sé in ogni evento, viaggio e relazione può portare ad una diminuzione di autostima e generare così negli utenti online una forte sensazione di ansia, peggiorata anche dalla pressione di doversi conformare a standard irraggiungibili di perfezione. Il termine è un’evoluzione semantica della “media fatigue”, ovvero la stanchezza mentale data da un sovraccarico di informazioni provenienti da diverse fonti e piattaforme. Content overdose: il termine “overdose” affonda le sue radici nel vocabolario medico ed indica l’assunzione di una quantità di farmaco superiore a quella che l’organismo è in grado di tollerare. Allo stesso modo, quando si parla di “content overdose”, consiste in un “bombardamento” metaforico di informazioni, talmente intenso da superare la capacità limitata del cervello di assorbirle. In quest’epoca di iperconnessione, infatti, un sovradosaggio di dati e notizie in rete rende difficoltoso distinguere cosa sia realmente importante: la “content overdose” rappresenta quindi uno degli effetti collaterali più dannosi dell’epoca digitale. Posting ennui: quest’espressione combina il concetto della profonda noia e insoddisfazione (“ennui”, un prestito linguistico dal francese) con l’atto di pubblicare contenuti online (“posting”). Se nella letteratura francese l’“ennui” rappresenta il disincanto verso la vita, nel contesto digitale descrive la completa perdita di interesse nell’interagire con gli altri e nel pubblicare contenuti. Sebbene Internet nasca come piattaforma dedicata alla condivisione, a causa di un’eccessiva quantità di contenuti, sempre più utenti stanno scegliendo consapevolmente di non condividere più dettagli della propria vita online, nel tentativo di tutelare la propria salute mentale. Relazioni parasociali: fa riferimento al legame, spesso percepito come profondo ed intimo, che alcuni spettatori o fan stabiliscono con celebrità, personaggi pubblici o di fantasia (un fenomeno chiamato “fictofilia”). Con la nascita dei social media, il fenomeno si è ampliato, facilitando la creazione di legami illusori con le celebrità, alimentati da una parvenza di vicinanza alla persona che viene adorata. A lungo andare, la coltivazione di relazioni parasociali può portare a isolamento e ad un progressivo deterioramento delle relazioni reali. Alone together: il paradosso dell’“alone together”, traducibile letteralmente con l’ossimoro “da soli-insieme”, nasce dall’idea che la connettività perenne offerta dai dispositivi tecnologici sia un’arma a doppio taglio: le persone, pur interagendo costantemente tra loro online, si sentono più sole e isolate che mai. Questo avviene perché le relazioni instaurate nel mondo virtuale non hanno la stessa autenticità di quelle coltivate dal vivo. Spesso, chi vive la condizione dell’“alone together” sviluppa anche una sorta di timore per le interazioni faccia a faccia, che richiedono spontaneità e capacità di gestire l’imprevedibilità. “Nell’era digitale - dichiara Gianluca Pedrotti, Principal Learning Content Creator di Babbel - l’esigenza di comprendere le nuove forme di interazione e i loro esiti disfunzionali ha dato vita a un vasto vocabolario di neologismi. La lingua, specchio dei mutamenti sociali e tecnologici, si adatta infatti per descrivere una varietà sempre più complessa di comportamenti e interazioni umane. Il ricorso a nuove parole, soprattutto di origine inglese, risponde al bisogno di dare un nome ai fenomeni emergenti, per renderli tangibili e quindi gestibili. Spesso questi termini nascono dalla fusione tra il vocabolario della psicologia e quello digitale: un processo tipico del lessico, che attinge a campi diversi per nominare esperienze nuove”.
La Nazione




