L'ex ds Regalia scuote il Bari: «Servono investimenti e idee»

BARI - Stagione fallimentare, identità smarrita e un futuro appeso al nodo multiproprietà. Il Bari si ritrova in un momento cruciale della sua storia recente. Tra incertezze societarie e ambizioni frustrate, la voce di Carlo Regalia, ex direttore sportivo biancorosso, offre una lettura lucida e profonda del presente e delle prospettive del club.
Direttore, partiamo dal presente. Come giudica la stagione appena conclusa del Bari in serie B? Cosa non ha funzionato secondo lei?
«A Bari ci sono stato spesso sino ad un paio di anni fa. Degli amici ne ho ancora da quelle parti. Ora sono a Varese e vivo la squadra a mille chilometri di distanza. L’ho vista in televisione. Per questo non me la sento di giudicare. Sarebbe da presuntuosi. Andrebbero comprese le difficoltà di chi ha operato. Il posto del Bari è la serie A. Da raggiungere e conservare. Purtroppo, la storia dice altro».
Il Bari ha chiuso il campionato lontano dalle aspettative. Ritiene che ci siano state carenze più sul piano tecnico, gestionale o motivazionale?
«Diventa difficile spiegare e stabilire perché le cose non siano andate come ci si aspettava. È evidente che una città come Bari, che crede nel calcio, è in grado di riempire lo stadio anche in B. I tifosi baresi sono esigenti. La realtà attuale non combacia con le loro esigenze. Anche il rendimento dei nuovi giocatori non è corrisposto a quanto fatto vedere nella precedente stagione. Eppure, si fa in fretta a riempire il San Nicola anche con una squadra non eccezionale. Questo la dice lunga sulle potenzialità di una piazza con un indotto enorme».
La questione multiproprietà è tornata al centro del dibattito. La Figc ha confermato che entro il 2028 non sarà più ammessa. Come vede questa scadenza per il Bari, ancora legato alla famiglia De Laurentiis?
«La mia esperienza dice che le società in grado di fare bene sono quelle con una presidenza con personalità, competente di calcio e che sa scegliere bene i collaboratori. Prima di ingaggiare il centravanti, bisogna individuare la persona giusta che vada a comprarlo. Anche a ragione, il tifoso giudica il lavoro fatto da altri. Diverso è, però, crearla la squadra valida. È difficile e dipende anche dalla disponibilità finanziaria. I baresi danno molto e per questo chiedono molto».
Secondo lei, la multiproprietà ha rappresentato più un freno o un’opportunità per il Bari in questi anni?
«Negli anni, a Bari di società ne sono cambiate tante. Si è passati anche da un fallimento. Un po’ sulla falsa riga del passato. È mancata la continuità di vittorie che la gente meriterebbe. Si fa bene se tutti i tasselli sono al loro posto. A cominciare dal direttore sportivo, per continuare con un direttore generale, un amministratore, l’allenatore e lo staff. Il mister deve essere uomo di carattere, che non crolli alla prima critica o rinneghi se stesso dopo le sconfitte».
In vista della necessaria cessione del club, quali caratteristiche dovrebbe avere il futuro acquirente per garantire un progetto solido e ambizioso?
«Prima di pensare alla squadra, bisogna creare gli operatori che devono lavorare per costruirla. Chiamare il meglio, gente pulita che sappia svolgere al top il lavoro di dirigente. Starà a queste figure realizzare il progetto. Come si fece ai miei tempi, puntando forte su un settore giovanile capace di vincere tutto il possibile. Il serbatoio di giovani calciatori locali è alla base di tutto. Non si può comprare sempre da fuori. Servono poi allenatori importanti che in carriera abbiano ottenuto grossi risultati pur disponendo di mezzi limitati».
C’è il rischio che l’incertezza societaria possa influenzare negativamente la prossima stagione?
«Non c’è dubbio. Quando la dirigenza va in affanno, il primo a soffrirne è lo spogliatoio. Chi ha delle responsabilità, ha il dovere di compiere scelte importanti».
Guardiamo al mercato. Quali reparti andrebbero rinforzati con urgenza per costruire una squadra competitiva?
«Non saprei con precisione. Un gruppo vincente è formato da elementi amalgamati tra loro. Si pensa subito al centravanti, ma occorrerebbe partire dalla base. Da una difesa forte con giocatori di massimo 23 anni. Giovani e bravi. Risorse che, senza validi osservatori, difficilmente si scovano. Sulla politica dei prestiti non ho mai creduto e mai l’ho voluta percorrere. Preferivo acquistare giocatori di proprietà, persino generando un debito alle casse societarie. Passivo che, valorizzando le risorse proprie, veniva subito rimpinguato con un guadagno di gran lunga superiore alle spese. È solo questione di organizzazione. A Bari si può fare. Lo dice la storia del club».
Il San Nicola è spesso stato teatro di grandi passioni, ma anche di contestazioni. Che ruolo può giocare la tifoseria in questo momento delicato?
«Della tifoseria del Bari bisogna solo avere rispetto. Se la gente contesta è perché si sente tradita. Il concetto può suonare forte, ma esprime la verità. Se si sente delusa, la tifoseria a poco a poco finisce per allontanarsi. Succede a Bari come in qualsiasi realtà che vuole vivere di calcio a certi livelli».
Lei ha vissuto il Bari in epoche diverse. Quali sono le differenze più evidenti tra il calcio di oggi e quello dei suoi tempi, soprattutto a livello dirigenziale?
«Non sono il depositario della verità. La regola d’oro, ripeto, è avvalersi di un organigramma strutturato e sapiente. Si vince con un gruppo di operatori all’altezza della situazione. Ai miei tempi, non disponevo di grandi liquidità. Ciò nonostante, abbiamo lanciato tanti giovani nel calcio che conta. Per ottenere i risultati, bastavano bravi tecnici e uno staff di qualità. Con contratti che permettevano loro di lavorare in prospettiva, nel tempo. Se perdi sempre, è perché la squadra tecnicamente non vale niente».
Infine, un messaggio ai tifosi biancorossi. Cosa si sente di dire a chi, nonostante tutto, continua a crederci?
«I tifosi devono sentire la squadra con la solita appartenenza. Mi auguro che possano vedere tempi migliori».
La Gazzetta del Mezzogiorno