Stupiti che si faccia ancora la guerra? Ma se è “padre di tutte le cose”


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la filosofia e il conflitto
Il detto di Eraclito, secondo il quale tutto è in costante trasformazione e il cambiamento è l'unico fattore stabile. La guerra è madre, non nemica, della trasformazione. La fine del “safe space” occidentale
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La grande epoca di cambiamento che stiamo attraversando si concretizza nella guerra, nello scontro, nel fuoco. Potrebbe essere diversamente? Evidentemente no. Eppure ci sembra sorprendente. Ripetiamo di continuo, come una sorta di mantra da religione orientale, che non è possibile che ci sia ancora la guerra. Con chi dovremmo fare la guerra in un mondo così interconnesso e globalizzato? Eppure accade che il nemico se non c’è abbiamo la necessità di inventarlo. Il paradosso è che il nemico, e la guerra che ne consegue, appare una sorta di necessità vitale. Senza l’altro speculare che ci si contrappone, o a cui sentiamo la necessità di contrapporci, non esistiamo, non possiamo darci ragione dell’esistenza, non possiamo dispiegarla. Esistiamo in quanto siamo in conflitto (e non solo a livello di transfert psicoanalitico!). E ciò accade anche nell’epoca più teorica, più sublimata, più osservata attraverso schermi perfetti a due dimensioni; anche nell’epoca in cui tutto è “smart”, in cui tutto sarebbe intelligenza, in cui le nostre dita appaiono come quelle divine che Michelangelo ha disegnato sul soffitto della Cappella Sistina, sempre pronte a creare semplicemente sfiorando una superficie; anche in questa epoca in cui ciò che spesso è più “di valore” (dati, informazioni, etc.) è smaterializzato; anche in questa epoca la carnalità del fuoco, dello scontro puro, sembra manifestarsi ancora come il solo mezzo che possa determinare e certificare un effettivo cambiamento.
Sembriamo ancora stare, interamente, dentro la prospettiva del più grande dei filosofi, Eraclito, che diceva: “Padre di tutte le cose è la guerra e di tutte re: gli uni li rese dèi, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi”. Egli spiegava che la struttura del mondo, che lui definiva “logos”, è fuoco che brucia, che si accende e si spegne. E questo fuoco, che è anche logos, ossia ragione che informa di sé le cose e attraverso le cose mostra la propria ragione, si accende e si spegne secondo un ordine che rimane apparentemente imperscrutabile ma che così è secondo necessità, e non secondo ciò che immaginiamo o speriamo che sia. Un ordine che si forma sempre sulla soglia tra equilibrio e disequilibrio, che per essere vitale si manifesta come uno stato ordinato passeggero che piomba poi nel disordine, che è conflitto che prima rompe l’ordine per poi generare nuovi stati ordinati.
È singolare come tutto ciò ritorni ora dinanzi a noi, dinanzi all’occidente che viene da una fase più che decennale di costanti tentativi di affievolimento della tensione, in direzione di una sorta di gigantesco safe space che sarebbe dovuto divenire l’orizzonte esistenziale dell’uomo interamente civilizzato. Dell’uomo acquietato nell’orizzonte del conflitto interamente sublimato nelle strutture ordinarie, meravigliose e confortevoli della nostra società super evoluta. Tutto sommato, si può quasi trovare un lato positivo, a livello teoretico, al grande caos dentro cui siamo: la liberazione dalla tremenda illusione della tutela, dello spazio sicuro, che doveva scendere (che è scesa) fin dentro le parole. Meglio la paura che scatena nuove forze che la mortifera tutela che tutto blocca nel ristagno pacifico della propria sicurezza. La reazione allo spazio sicuro non viene tanto “da dentro”, ma da fuori, ossia dalla necessità stessa della forza intrinseca alla vita del mondo che continua “a girare”, a darsi secondo la propria regolarità, che però non è fatta di certezze e stabilità ma di squilibri che devono di continuo essere rimessi in asse. La regolarità è trasformazione. E tutto ciò genera conflitto che ora si traduce in guerre guerreggiate dietro l’angolo. In fin dei conti, però, siamo ancora nella simulazione del conflitto: è tutto troppo lontano, nel nostro mondo in cui tutto è vicino, troppo altrove. Perché altrove ci appare la guerra in sé, l’altrove ci appare il conflitto.
Nella prospettiva eraclitea, tutto è in costante trasformazione, e l’unica regolarità è quello stesso logos emblema del cambiamento. La regolarità è il cambiamento, il cambiamento è l’unico fattore stabile. In un breve scritto del giovane Spengler, una sorta di tesi universitaria dedicata al grande filosofo antico, l’autore del Tramonto dell’occidente scrive: “Tutte le opere della cultura, lo stato, la società, i costumi, le opinioni, sono prodotti della natura; esse soggiacciono, come le altre, alle medesime condizioni di esistenza, alla legge rigorosa secondo la quale niente permane e tutto si trasforma. È una delle più grandi scoperte di Eraclito aver notato l’intima affinità tra cultura e natura. Il contrasto e l’equilibrio di tensioni opposte ha per l’accadere energetico il medesimo significato che la guerra possiede per l’esistenza umana”. Si potrebbe riassumere: o il conflitto o il nulla.
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