Salone del libro, le Comencini unite: “Salviamo il futuro del nostro cinema”

TORINO – Le tre Comencini più lui, il grande Luigi, immanente. È la famiglia del cinema. Cristina e Francesca, sorelle e figlie, registe e sceneggiatrici. E Giulia Calenda, a sua volta figlia (di Cristina) e nipote, sceneggiatrice: ha scritto il film della Cortellesi, vi basta? Un intreccio, una trama di cui le tre parleranno oggi al Salone con Francesco Piccolo (15.45, Sala Rossa). Cinema sempre, dal primo giorno e dal primo ricordo. Che significa? «Non ne sono consapevole, perché è sempre stato così», dice Cristina. «Ho assistito a un sacco di parole e di incontri, eppure quando andavo a scuola non sapevo definire il lavoro di papà: quell’uomo che nel giorno del nostro compleanno ci portava a vedere un film di Charlot. Ora so che è anche un lascito di valori». Francesca: «Siamo cresciute vedendo la sua passione, sentendola: la scommessa di tutta una vita. Papà faceva cinema con grande senso di responsabilità: era, come diceva lui, “il bel mestiere”». Giulia: «Ho sempre e solo sentito parlare di questo, sono i miei mattoncini del Lego: alla fine, sai fare le cose e non sei mica un genio. Per noi, guardare un film non è mai stato solo guardare un film, ma entrare nelle strutture, nei personaggi, nei meccanismi».
La memoria recupera la prima immagine di Luigi Comencini. Qual è? Cristina: «Lui nel suo studio che mi convoca alle 7.30 per la riunione di sceneggiatura, lui sempre pensoso. Diceva molto meno di quello che pensava, era un uomo da interpretare. Ora vorrei che vedesse e leggesse tutto quello che faccio, mi manca il suo occhio paterno, critico e severo. E mi manca la sua umanità grandissima, che saprebbe dare un senso ai giorni che viviamo circondati dal terrore». Francesca: «Ho 6 anni, è la prima volta che mamma e papà mi lasciano a casa da sola, mi dicono “saranno solo due ore, stai tranquilla”. Dovevano assolutamente vedere Sussurri e grida di Bergman». Giulia: «Il nonno che mi ripete che non studio abbastanza, e io che penso: ma lui che ne sa? Lui che porta a spasso il cane lupo, e un giorno cadono e non possono uscire più. Lui che torna carico di pacchettini di dolci».

A questo punto, bisogna pronunciare la parola magica: Pinocchio. Cristina: «Papà aveva sempre voluto farlo, era il suo sguardo di bambino. Siamo tutti la generazione di Pinocchio, corriamo ancora insieme a quel bimbo. Quando papà morì, il portiere di casa mi disse: “Io sono un bambino di Pinocchio”». Francesca: «È il capolavoro tra molti suoi film belli e importanti. Su quel set, papà aveva sempre il sorriso, lui che era spesso corrucciato. Diceva di essere rimasto fedele alla sua prima lettura di Pinocchio e al mondo di Collodi, lui che credeva nella favola e conosceva il valore dell’antica civiltà contadina. E poi quel freddo, la neve finta che girava nei ventilatori, i somarelli imbizzarriti, il legno e il cartone, il suo amato artigianato». Giulia: «Pinocchio è la magia, l’allineamento perfetto dei pianeti, grazie anche alla colonna sonora di Fiorenzo Carpi. Un momento formativo per moltissimi. Quando a scuola si seppe che mio nonno aveva girato Pinocchio, dalle reazioni compresi che si trattava di qualcosa di mitico».
Regia e sceneggiatura, lo sguardo e la parola. L’altro incastro delle tre Comencini. Cristina: «Ho capito come la scrittura sia fondamentale ora che non potrei più scrivere un mio film, perché da regista ho smesso di fare la sceneggiatrice. Un delicato equilibrio anche di libertà. Certo, come registi bisogna edificare su un terreno solido». Francesca: «La cosa essenziale è fare film onesti, che sappiano cosa vogliono raccontare e ci credano. L’attitudine narrativa è comune a due mestieri diversissimi: oggi, la tecnologia offre ai registi possibilità inaudite, però la facilità è quasi sempre una trappola, un possibile inganno». Giulia: «Io ho sempre fatto solo la sceneggiatrice, la scrittura è il mio giardino segreto. Non ho mai amato il set. Ma un regista ci vuole, e io sono al suo servizio».
E poi la crisi del cinema italiano, quelle frasi del ministro Giuli, la sofferenza di tanta gente che lavora. Cristina: «Il cinema fa parte della cultura, è come un museo. I decreti, tutt’altro che assistenzialisti, il nostro cinema li ha aspettati boccheggiando». Francesca: «Non chiediamo aiuti e basta, ma sostegno in nome del principio dell’eccezione culturale che ancora permette al cinema italiano di distinguersi nel mondo. Bisogna cercare sempre di più il dialogo e l’ascolto, senza dimenticare che il 90 per cento dei lavoratori del settore non hanno garanzie sindacali e neppure un contratto collettivo di categoria». Giulia: «Parlo con macchinisti, fotografi, operatori di ripresa, persone che non riescono più a pagare il mutuo perché il cinema è un lavoro a intermittenza. E poi, come si può usare la parola “comico” per insultare? Significa non sapere nulla di Sordi, Tognazzi, Manfredi, Eduardo… Significa non conoscere e non amare una parte importantissima della storia italiana. E chi non conosce, non ama».
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