Ovunque Pasolini, come Bacio Perugina che vale un curriculum morale


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Da autore scomodo a santino prêt-à-porter: Pasolini ridotto a slogan. Nel discorso culturale, il suo nome vale più delle sue parole
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Da quando citare Pier Paolo Pasolini ha sostituito il doverlo leggere, siamo tutti pasoliniani. Ondate di citatori si riversano sulla battigia del cosiddetto discorso culturale, che ormai è poco discorso e men che mai culturale e sempre più una parete per ombre cinesi. Ultima venne Anna Foglietta nella serata finale dello Strega, ma mentre state leggendo, chi lo sa, potrebbero essersene accodati molti altri. “Il conto è destinato a salire”, come si paventa in contesto di disgrazie.
L’attrice ha recitato un monologo di cinque minuti che ci auguriamo scritto con ChatGpt Monologo gemebondo come si conviene, moderatamente accorato sull’epoca, sull’algoritmo, su “questo tempo così spaventoso”. Monologo costruito intorno a Pier Paolo Pasolini, cometa di Halley morale di tutto il ghirigoro. Pasolini di cui Foglietta ha lamentato l’assenza. “Ci manca come i sogni dei bambini”. Pasolini di cui Foglietta ha evocato la presenza. “Ci vorrebbero i suoi occhiali per guardare la verità del tempo che viviamo”. Prendendosi infine, Foglietta, la responsabilità di fargli dire qualcosa sulla pace. “Avrebbe detto che la pace non è uno slogan”. “Pasolini avrebbe alzato la voce”, ha sussurrato a un certo punto Anna Foglietta. “Non per urlare ma per farsi ascoltare, con la sua poesia e coi suoi articoli scomodi”. E qui siamo andati lunghi a terra, proprio ko, perché passi tutto, passi “l’incertezza del nostro stare al mondo”, passi “questo viaggio che è la vita”, passi “lo sguardo acuto e impietoso”, passi concludere con un pensiero di Pasolini definito “l’ennesimo pensiero giusto”, ma “articoli scomodi” no. (“Ma che siamo, in una fiction con Beppe Fiorello?”, semicit.)
Ovunque Pier Paolo Pasolini. Preso e gettato nel discorso. Citato e recitato. Declamato e invocato. “Dove sono oggi i Pier Paolo Pasolini?”. In temibile proliferazione il “signora mia” anche nel cosiddetto discorso culturale, che è poco discorso e men che mai culturale e sempre più querimonia retrospettiva. Presto ci si capirà senza nemmeno cominciare la frase, basterà sospirare, guardare in alto, congiungere le mani in un amen di sovrana deplorazione e l’interlocutore – sempre meno interlocutore e sempre più utente della nostra intelligenza artificiale – annuirà pensando dolorosamente: Pier Paolo Pasolini. Pasolini l’emblema, lo stemma. Pasolini araldico, infallibile come il Papa. Pasolini scomodato e impugnato. Pasolini brandito, sventolato. Pasolini-credenziale. Pasolini come Bacio Perugina che vale un curriculum morale. Non tutti i cognomi seguiti dai puntini di sospensione garantiscono un discorso implicito: Pasolini sì. E si pasolineggia, il fenomeno dilaga. Pasolinisti percorsi da una ruga in forma di rosa. Digitate su Google “quanto ci manca Pasolini” e contate. Per Furio Colombo ci manca addirittura tre volte. E poi le lucciole, i poliziotti. Il poeta corsaro, una storia sbagliata – “in direzione ostinata e contraria” è la più ricattatoria delle crasi a fini reputazionali che si possano buttar lì tirando in ballo con noncuranza due grandi santificati, che peraltro la santificazione rifiuterebbero con fermezza, gettando in aria i turiboli e seminando il panico tra i chierichetti.
La sensazione è che calare Pasolini significhi calare il grande asso della posizione (oggi postura) morale. E farsi cosplayer di un supereroe modulare, versatile insegna di un’indistinta indignazione, giusto per fare un esempio, ma se ne potrebbe fare un altro e il discorso non cambierebbe, perché qui è tutto un ridurre Pasolini alla citazione giusta di Pasolini, ritagliandolo dallo sfondo e incollandolo su quello di qualsiasi stagione, comoda dispensa dalla comprensione della stagione sua, dalla necessità di studiare l’uomo e il suo linguaggio, e col suo linguaggio il senso di un’epoca – un grande scrittore lo è proprio perché è nel suo linguaggio, cuore della sua lotta col mondo, il senso di tutto il resto. E invece son tutti selfie con Pasolini. “Dov’è oggi un Pasolini? Quanto ci manca Pasolini?”. Lacrime retrospettive. Ma è normale, si dirà, del resto la letteratura è una faccenda di padri. Verissimo, ma i padri, soprattutto se grandi, li si ama attraverso il conflitto. Li si combatte a morte con amore, non li si liofilizza. Ci si fa a pugni, non li si derubrica a trovarobato citazionale, e non li si disarma nemmeno della miopia, delle battaglie a vuoto, delle cause perse. Un grande scrittore è una colossale vocazione all’impari. Pasolini non è esistito per farci vincere il torneo delle frasette.
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