Non Yalta ma Potsdam

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Cosa cambiarono la Bomba e il passaggio da Roosevelt a Truman nelle trattative con Stalin. L’alba del tempo nuovo

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Nel tardo pomeriggio del 16 luglio 1945, Harry Truman ricevette da Washington un cablogramma cifrato. Lo aveva aspettato con ansia e trepidazione. Entrato da pochi mesi alla Casa Bianca dopo la morte di Franklin D. Roosevelt, il presidente americano era arrivato il giorno prima a Potsdam, a pochi chilometri da Berlino, su invito del leader sovietico Josif Stalin. La capitale tedesca era sotto il pieno controllo dell’Armata rossa, che l’aveva conquistata al termine di un’epica battaglia terminata il 9 maggio, quando la bandiera rossa aveva sventolato sul Reichstag. Hitler aveva commesso suicidio. Il nazismo era sconfitto. Ma la Seconda guerra mondiale continuava nel quadrante asiatico, dove il Giappone opponeva un’ultima, disperata resistenza. Stalin aveva fretta. Si sentiva forte. Era il vero vincitore della partita, avendo sostenuto il peso più grande dello sforzo bellico, gettando milioni di vite umane nella fornace del conflitto. Dopo quelle di Yalta e Teheran, aveva voluto una nuova e definitiva conferenza dei vincitori per decidere il destino della Germania e ridisegnare i confini d’Europa.

Nella capitale iraniana, alla fine del 1943 mentre la guerra ancora infuriava, Stalin e Roosevelt avevano prevalso su Churchill, accordandosi sull’appoggio ai partigiani di Tito in Jugoslavia, sui tempi e le modalità dell’Operazione Overlord, lo sbarco in Normandia (poi avvenuto nel giugno 1944) e soprattutto sulla necessità una volta finito il conflitto di smembrare il territorio della Germania per impedirne la rinascita come potenza militare. Inoltre, erano stati presi accordi per l’invasione alleata da sud della Francia e sui futuri confini della Polonia. In Crimea, dal 4 all’11 febbraio 1945, con la vittoria ormai a un passo, i tre grandi avevano gettato le basi per il futuro: la divisione della Germania in quattro zone di occupazione, la creazione di una zona di influenza sovietica nelle nazioni dell’Europa centro-orientale, la fondazione delle Nazioni Unite. Inoltre, Stalin si era impegnato a dichiarare guerra anche al Giappone, una volta sconfitta la Germania.

La partita di Potsdam, la piccola Versailles dei re di Prussia, era completamente diversa. E non solo per l’assenza di Roosevelt, che a Yalta soprattutto era già molto malato ed era apparso piuttosto arrendevole verso Stalin, quasi soggiogato dal suo magnetismo. Anche se aveva poca esperienza in politica estera, l’ex commerciante del Kansas Harry Truman era infatti di una pasta diversa, molto più ruvida, coriacea, poco incline a farsi illusioni sulla vera natura del comunismo e sorprese tutti con la sua professionalità. Ma come vedremo, la conferenza nel Brandeburgo era diversa anche per le condizioni di Churchill, ormai privo dell’adrenalina che lo aveva sostenuto nel guidare l’eroica resistenza del Regno Unito durante il conflitto. Soprattutto era distratto, come vedremo a ragione, dall’attesa per i risultati delle elezioni, tenutesi in Gran Bretagna il 5 luglio, che sarebbero stati annunciati proprio durante le trattative. Più in generale, era cambiato un dato fondamentale: anche se Stati Uniti e Gran Bretagna combattevano ancora contro il Giappone, non c’era più il nemico comune sul teatro europeo. Era quindi mutato lo Zeitgeist della grande alleanza contro il male assoluto, che aveva segnato gli incontri di Teheran e Yalta.

La scelta del luogo era stata obbligata. Berlino era un cumulo di macerie ancora fumanti, un deserto che odorava di morte dominato dalle “Trümmerfrauen”, le donne delle rovine, migliaia di figure femminili che furono decisive nella rimozione dei detriti. Così, i nuovi padroni sovietici scelsero di ospitare i lavori della Conferenza a Potsdam in un palazzo rimasto quasi indenne ai bombardamenti: costruito per il principe ereditario Guglielmo di Hohenzollern sul modello di una residenza di campagna inglese, Cecilienhof con le sue 126 stanze e il suo grande salone d’onore era il posto ideale per accogliere alcune centinaia di partecipanti.

Stalin era in ritardo. Viaggiava con il treno speciale che era stato dello zar Nicola II attraverso i territori strappati alla Wehrmacht. Così, Churchill e Truman avevano deciso di usare quella giornata per visitare Berlino e rendersi conto della drammaticità della situazione. Il premier britannico volle perfino scendere nel bunker di Hitler. “La strada era tutta fiancheggiata da una doppia fila di uomini anziani, donne e bambini, che trascinavano pacchi sulle spalle o spingevano carri carichi di tutte le loro cose”, scrisse nel suo diario Joy Milward, la diciannovenne segretaria personale che Churchill aveva portato con sé in Germania e che avrebbe fedelmente annotato impressioni e ricordi, allegando anche mappe, piantine, foto, biglietti d’invito ai ricevimenti che ogni delegazione si sentì in dovere di organizzare nelle oltre due settimane dei colloqui.

Ma quel giorno, la testa di Truman era altrove. A migliaia di chilometri di distanza, nel deserto del New Mexico, il segretissimo Progetto Manhattan era infatti giunto al suo compimento. Alle prime ore dell’alba, l’equipe di scienziati e militari guidata da David Oppenheimer aveva svolto il primo test della bomba atomica americana: “Operazione effettuata questa mattina. Diagnosi non ancora completa. Primi risultati soddisfacenti, molto oltre le aspettative”, diceva il messaggio in codice. In quel momento Truman seppe di avere in mano la più distruttiva arma mai costruita dagli uomini. Ma nel corso della conferenza ne avrebbe parlato solo di sfuggita, durante una pausa e in termini piuttosto generici sia con Churchill che con Stalin. Il quale fra l’altro non aveva battuto ciglio, probabilmente perché sapeva già tutto grazie alle spie infiltrate nell’équipe di Oppenheimer: “Spero che ne faccia buon uso contro i giapponesi”, si era limitato a dire.

L’episodio offre una misura di quanto, durante il terzo appuntamento delle potenze vincitrici, covassero già i germi di cosa si stesse preparando, la rivalità tra i due campi che avrebbe segnato la seconda metà del Secolo breve. Eppure, come spiega lo storico Michael Neiberg, i giorni di Potsdam furono dominati da una certa disponibilità al compromesso: “Nessuno parlava ancora di Guerra fredda. Potsdam era ancora la cerimonia conclusiva della vittoria sulla Germania, che ora non era più il grande problema dell’Europa”. Dal 17 luglio al 2 agosto di ottant’anni fa, Stalin, Truman e Churchill si videro quasi ogni giorno intorno alla grande tavola rotonda, che ancora oggi si può visitare nella villa di Potsdam. Dopo le discussioni preparatorie tra i diplomatici e le sessioni preliminari dei ministri degli Esteri – Vyacheslav Molotov accompagnato da un giovanissimo Andrej Gromyko per l’Urss, James Byrnes per gli Usa e Anthony Eden per la Gran Bretagna – i tre leader tennero tredici sedute di quasi due ore ciascuna, che iniziavano alle 5 del pomeriggio e finivano poco prima delle 7. Le serate, dopo che i capi si erano ritirati nei rispettivi quartieri, erano dedicate alla socializzazione: banchetti, cori, feste. “Balliamo quasi tutte le sere”, annotò nel suo diario Joy Milward.

A dispetto di molti disaccordi e di un clima mutato, Potsdam fu la conferenza decisiva per gli scenari del Dopoguerra. Stalin ottenne per l’Urss tutti i territori orientali della Polonia, compensata con uno spostamento a ovest delle sue frontiere, fino alla linea dell’Oder-Neisse. Milioni di persone di etnia tedesca che vivevano nelle provincie polacche occupate vennero espulsi, ma il loro trasferimento non fu affatto “umano e ordinato” come recitava il protocollo: 14 milioni di essere umani, in maggior parte donne, bambini e anziani, vennero costretti a lasciare le loro case, centinaia di migliaia morirono per gli stenti e la fatica o caddero semplicemente vittime della furia antitedesca di cui furono preda le nazioni liberate dal giogo nazista. In cambio, Truman mise in sicurezza la definitiva divisione di Berlino, ancora quasi interamente occupata dall’Armata rossa, in quattro settori, ciascuno sotto il controllo di una delle potenze vincitrici, inclusa la Francia. La Germania sarebbe stata disarmata e denazificata, il complesso militar-industriale smantellato, i criminali di guerra nazisti messi a processo. La società tedesca doveva essere rimodellata in modo democratico, decentralizzato e messa al riparo da ogni tentazione autoritaria. Ma la ricostituzione del paese in uno stato sovrano era rinviata sine die e nel frattempo una Commissione di controllo alleata avrebbe funto da autorità politica suprema. Fu il preludio alla definitiva divisione della Germania.

Uno dei nodi centrali furono le riparazioni di guerra: le pretese di Stalin erano enormi, in ragione delle immense distruzioni che l’invasione nazista aveva causato nel suo paese. Sia a Teheran che a Yalta aveva avuto assicurazioni in tal senso da Roosevelt. Ma a Potsdam, Truman e Byrnes invitarono il capo del Cremlino a mitigare le sue richieste, agitando lo spettro di Versailles, la conferenza di pace che nel 1919, dopo la fine della Grande guerra, aveva imposto condizioni così dure e impossibili alla Germania, da generare il senso di umiliazione e il revanscismo che erano stati il brodo di coltura del nazismo. L’argomento fu accolto solo in parte dal dittatore sovietico, che comunque rinunciò a pretendere riparazioni dalle zone del paese controllate dagli alleati occidentali. Il colpo di scena avvenne il 26 luglio. La conferenza era stata interrotta per permettere a Churchill di rientrare a Londra, in modo da essere presente all’annuncio dei risultati elettorali. Ci aveva pensato per tutto il tempo. Era depresso, svogliato. “Non voglio fare nulla. Non ho più energia. Mi chiedo se tornerò mai a una condizione normale”, aveva detto in quei giorni al suo medico. Non sarebbe mai tornato a Potsdam. Il vincitore della guerra, l’uomo che aveva salvato l’Inghilterra nell’ora più buia, era stato sconfitto a valanga dal laburista Clement Attlee, fin lì presente a Cecilienhof in qualità di capo del governo-ombra, del quale Churchill non aveva alcuna stima. Ma vinta la guerra, gli inglesi ora volevano un leader per la pace. E così fu Attlee a tornare nel Brandeburgo, accompagnato dal nuovo ministro degli Esteri Ernest Bevin, e a sedersi al tavolo dei colloqui da primo ministro di Sua Maestà per i cinque giorni conclusivi.

Alla fine della Conferenza, Truman suggerì che i tre Grandi si incontrassero nuovamente a Washington. Attlee, entusiasta della proposta, disse che quel vertice sarebbe stato “una pietra miliare sulla via della pace fra i nostri paesi e nel mondo”. Quel summit non ebbe mai luogo. Quattro giorni dopo la chiusura di Potsdam, l’Enola Gay sganciò la bomba atomica americana su Hiroshima, spazzandola via e causando la morte di decine di migliaia di persone. Settantadue ore dopo toccò a Nagasaki. Ma si dovette attendere fino al 15 agosto perché l’imperatore Hirohito annunciasse la resa del Giappone.

A Potsdam, la questione di cosa significasse “una Polonia democratica” non venne risolta. Stalin fece una vaga promessa di tenere libere elezioni nelle zone sotto il controllo dei sovietici. Sappiamo come andò. La Cortina di ferro iniziava a calare sull’Europa, spaccandola in due. Era l’alba della Guerra fredda. “In un certo senso, a Potsdam – dice lo storico Neiberg – furono gettate le basi che avrebbero impedito allo scontro Usa-Urss di sfociare in una vera guerra. Ma il prezzo lo pagarono gli europei del centro e dell’est che avrebbero vissuto per decenni sotto il giogo sovietico”. Uscendo alla Conferenza, qualcuno chiese al dittatore del Cremlino se fosse soddisfatto di essere venuto a Berlino. Stalin rispose: “Zar Alessandro era arrivato a Parigi”.

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