La balena di Hoare, ovvero la mostruosità celata tra le insidie dell’oceano


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la riflessione
Un libro sulla folle vcaccia ai cetacei, un’opera enciclopedica e poetica. Una riflessione sul presente disilluso, sul mito del progresso e sulla perenne fascinazione (e minaccia) del mare
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Per puro bisogno di evasione e per un desiderio quasi fisico di esplorare qualcosa di grandiosamente ignoto e remoto, mi sono messo a leggere avidamente e con una certa fatica un libro come “Leviatano o la balena” di Philip Hoare, ricevuto una settimana fa dal Saggiatore (pp. 506, euro 26). A questi moventi se ne aggiunge un altro: la nostalgia di una lettura giovanile come quella del capolavoro di Melville, con il suo perentorio, fulminante e indimenticabile incipit: “Chiamatemi Ismaele”, che continua così: “Qualche anno fa – non importa quando esattamente – avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po’ per mare, e vedere la parte equorea del mondo. E’ un modo che ho io di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione”.
Non posso certo immedesimarmi, se non per la tristezza, con il narratore e protagonista di Moby Dick; non ne ho né l’età né l’energia, la libertà, l’originalità e il coraggio. E poi il mondo è cambiato di molto e oggi non si fugge da Manhattan per imbarcarsi su una baleniera. Da allora, a metà Ottocento, crediamo che ci sia stato uno straordinario progresso materiale, sociale e di mentalità, mentre invece… Ma qui mi fermo, perché non ho voglia di mettermi per l’ennesima volta a lodare le virtù e la vitalità del passato rispetto a un presente quale è il nostro oggi: politica mondiale impazzita, clima fuori sesto, nonché folla di esseri umani su e giù per le strade, che stanno per precipitare nell’inferno dell’accidia e che intanto fissano un piccolo e onnipotente aggeggio telematico che non ti permette mai di stare davvero lì dove sei, credendo invece di essere sempre in centinaia di altrove. Il nostro mondo, a essere realisti, non migliora mai, non progredisce. Come nell’artrite reumatoide, la malattia che si sposta da una parte all’altra del corpo, si migliora qui per peggiorare lì. Alle invenzioni più intelligenti si associano i comportamenti più stupidi.
Certo Ismaele non era felice quando decise di non suicidarsi con un colpo di pistola decidendo di evadere nell’immenso, sconosciuto oceano a caccia di balene. A me il mare non è mai piaciuto molto, non mi ha mai trasmesso un’idea o sensazione di libertà, come predicava Baudelaire. Ebbi su questo una controversia con un esperto amante del mare come Raffaele La Capria. Rimase incredulo e contrariato quando gli dissi che per me il mare non era che una spaventosa e noiosa massa enorme di materia liquida nei cui abissi si annega. Molto più divertente e varia è la terra, con le sue colline, pianure, alberi e corsi d’acqua, che non quel mostro che è il mare sconfinato, deserto e desolante, sulla cui superficie si può solo sognare di avvistare un’isola e che nasconde in corpo chissà quali orrori. Dissi al caro “Dudu’” La Capria che lui credeva di amare il mare, mentre invece non amava che il punto di incontro fra mare e terra, cioè lungo le coste e intorno a bellissime isole come Capri. Mi sono trovato più in sintonia con un altro amico, Magnus Enzensberger, che essendo nato nelle Alpi bavaresi diffidava del mare, lo temeva, e forse per questo scrisse il suo poema catastrofista e antiprogressista “La fine del Titanic”, evento che nel 1912 sembrò annunciare le molte catastrofi del Ventesimo secolo. Fatale fu lo scontro del gigantesco, superbo e lussuoso transatlantico con un iceberg.
L’imprevisto, che provocò la morte di 1.600 passeggeri, fu interpretato subito miticamente come l’evento fino ad allora più grave nella storia. Ecco una prova che il mare, con i suoi smisurati oceani nasconde le più imprevedibili e spaventose insidie. Ma certo il mito più longevo sulla spaventosa pericolosità del mare è incarnato dal “mostro marino” che è la balena, che sono le balene nella loro varietà di forma, dimensione e capricciosità di carattere. “Leviatano o la balena” di Hoare è una vera enciclopedia naturalistica e storica sulla creatura vivente insuperabile per dimensioni, quella che meglio rappresenta l’enormità dei mari: “Chi vede per la prima volta la distesa dell’oceano non la dimentica più, così come è impossibile descriverla a chi non la conosce. Io ce l’ho sempre in testa, è il mio chiodo fisso”, dice Hoare. Ma già Henry David Thoreau, più o meno coetaneo di Melville, scrisse: “L’oceano è il selvatico che circonda tutto il globo, più selvaggio di una giungla del Bengala, e ancora più pieno di mostri”. E Melville aggiunge: “L’uomo ha perduto quel senso della piena terribilità del mare che originariamente provava […] Sì, o sciocchi mortali, il diluvio di Noè non si è ancora ritirato: due terzi di questo mondo ne sono tuttora sommersi”.
Di qui parte Philip Hoare con la ricerca e l’accumulo di saperi, ricordi, aneddoti e dati storici sulla caccia alle balene e sulla vicenda dello stesso autore di “Moby Dick”, genio misconosciuto fra i suoi contemporanei e del cui valore la letteratura americana si è accorta solo intorno al 1920, una trentina di anni dopo la sua morte. Fra orche, megattere, balenottere azzurre, capodogli e altri cetacei, la strage di balene dovuta a scopi economici, accoppiati a terrori ancestrali e varie mitologie, è arrivata fino a oggi in mai placata competizione fra baleniere americane, inglesi, norvegesi, olandesi, russe, giapponesi, brasiliane… Nonostante il consapevole incubo che le balene si estinguano, si continua a perseguitarle, adorarle e temerle, attratti dalla grande ricchezza che fisicamente racchiudono nei loro corpi e dall’emozione sempre nuova che nasce dal loro avvistamento improvviso sulla superficie marina, quando le loro ineffabili code emergono per un momento e poi scompaiono. Alla coda della balena Melville dedica nel suo poema enciclopedico un lirico capitolo: “Altri poeti hanno modulato le lodi dell’occhio soave dell’antilope, e delle amabili piume dell’uccello che non si posa mai. Meno etereo, io celebro una coda […] In nessuna creatura vivente le linee della bellezza sono più squisitamente definite”. Possa una tale bellezza fisica o metafisica guarire i cacciatori di balene dalla loro indemoniata follia. Una tra le troppe che ci stanno portando all’autodistruzione.
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