Dai classici al moralismo. Tre parole tronfie come tacchini che uccidono la letteratura


Nella lettera a Vettori, Machiavelli scrive di entrare “nelle antique corti delli antiqui huomini, dove […] io non mi vergogno parlare con loro” (foto Getty)
“Condivisione”, “rilevanza”, “senso critico”. Così l’insegnamento umanistico a scuola si trasforma in attivismo. Con buona pace di Machiavelli, che con gli “antiqui huomini” conversava in solitaria
L’espressione parole-tacchino viene da una lettera del 1924 di Pirandello a Telesio Interlandi, di cui ho appreso l’esistenza leggendo A futura memoria di Sciascia, che la cita. “Beato paese il nostro – scrive Pirandello – dove certe parole vanno tronfie per via, gorgogliando e sparando a ventaglio la coda, come tanti tacchini”. Occupandomi di scuola da molti anni, e specificamente di insegnamento della letteratura a scuola, mi pare di notare che il modo in cui se ne parla e scrive sia pieno di queste parole-tacchino che spesso sono solo scorciatoie del pensiero, e vengono accolte con acquiescenza anche da parte di chi, se gli fosse concesso il tempo di pensarci, su quelle parole-tacchino probabilmente finirebbe per eccepire. Pirandello osservava subito dopo che “s’è visto sempre che un po’ di bene s’è avuto sol quando […], semplicemente ma risolutamente, s’è andato incontro a queste parole, che subito allora sono scappate via, sperdendosi di qua e di là, con la coda bassa e illividita dalla paura”. Io non sono così ottimista. Sono, quelle a cui penso, parole che, specie se brandite dai fanatici, non soffrono la paura o la vergogna, né sembrano sul punto di ritirarsi. Ma proviamo.
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Avrete forse sentito parlare di una lettera che Niccolò Machiavelli scrisse all’amico Francesco Vettori per raccontargli della sua vita di esule in patria. Le giornate, Machiavelli un po’ le passa a leggere cose “leggere” che oggi considereremmo pesantissime (“Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio”), un po’ le trascorre in compagnia degli amici ingaglioffandosi in giochi d’azzardo. Poi, la sera, “mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove […] mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono”.
Naturalmente sto scherzando. Questa non è solo la più celebre tra le lettere di Machiavelli, ma è anche una delle poche pagine di prosa su cui, si può azzardare, quasi tutti gli scolari italiani sono stati e saranno costretti a riflettere per qualche minuto della loro vita. Non so però se nelle “analisi del testo” somministrate dai manuali e nelle spiegazioni in classe si faccia sufficientemente caso al fatto che qui Machiavelli dice in buona sostanza che i piaceri dell’intelligenza sono piaceri che si consumano in solitudine. Mentre gli altri – gli amici della taverna, i postulanti – se ne stanno fuori, il lettore resta in dialogo solitario con il libro che ha di fronte.
Si legge dunque, se da questo apologo proviamo a trarre una morale, non per entrare in contatto con gli esseri umani che ci sono già prossimi, e neanche per rafforzare il nostro rapporto con loro, ma per coltivare noi stessi attraverso la sapienza, l’intelligenza e il gusto dei migliori tra gli esseri umani del passato.
Benché molti di noi possano forse condividere, magari con qualche distinguo, un punto di vista del genere, pare evidente che l’educazione umanistica attuale prenda il più delle volte una strada completamente diversa, sia quanto alla sostanza sia quanto ai modi della sua trasmissione.
Quanto alla sostanza, è chiaro che le “corti delli antiqui huomini” hanno perso molto del loro appeal, e che gli oggetti culturali dei quali ci nutriamo – non solo libri ma anche e soprattutto film, canzoni, serie televisive, videogiochi – appartengono soprattutto al presente. Soprattutto, se parliamo di chi lavora nel campo dell’istruzione; in toto, se parliamo delle persone che intellettuali di professione non sono. Quanto ai modi della trasmissione, ed è il punto che mi sta più a cuore, mi pare di aver notato che il modello-Machiavelli – che invita al consumo solitario dei libri – è stato soppiantato da un modello esattamente opposto, che invita prima di ogni altra cosa alla condivisione (è la prima delle nostre parole-tacchino).
Nell’ambito della sfera pubblica la cosa è talmente lampante che ci si può risparmiare il solito elenco: i saloni, i festival, le letture pubbliche, le presentazioni di libri cui si partecipa per buona creanza, o con lo stesso spirito di chi passeggia guardando le vetrine. E negli ultimi anni si è aggiunta naturalmente la conversazione ininterrotta dei social network, con pagine di Instagram e TikTok che promuovono la lettura, popstar come Dua Lipa che hanno addirittura una rubrica in cui recensiscono libri, invitano gli autori, imbastiscono conversazioni anche interessanti. In un mondo così estrovertito, non è strano che anche i consumi culturali seri finiscano per declinarsi come attività sociale, dialogica, piuttosto che come attività da praticare in solitudine; e che i libri vengano “parlati” piuttosto che letti.
Forse questa spinta all’estroversione è meno evidente nell’ambito della scuola; ma facendo manuali scolastici osservo che coloro che “eserciziano” i testi, e che sono spesso insegnanti, e ottimi, tendono a dare molta più importanza che in passato al momento della discussione insieme ai compagni, una volta terminata la lettura di questo o quel brano antologico. “Pensi che, scrivendo a Vettori, Machiavelli mirasse a usarlo per tornare amico della famiglia dei Medici? Parlane con i tuoi compagni di classe e stila un resoconto di mille battute relativo alle varie posizioni emerse nella discussione”. Spesso, in ossequio al moderno metodo pedagogico, la discussione si organizza nella forma del debate, che – cito dalla definizione dell’IA – “prevede un confronto strutturato tra due squadre su un tema specifico, in cui ciascuna squadra sostiene una posizione (pro o contro). L’obiettivo è sviluppare competenze argomentative, di pensiero critico e comunicative negli studenti”. A volte, poi, la mediazione del testo è decisamente scartata, e l’esercizio prende la forma del “compito di realtà”: “Organizza una mostra a partire dal testo che hai letto. Scrivi un breve testo di presentazione e individua lo spazio idoneo nella tua città (una scuola, un museo, una sala-congressi, il palasport)”. Di solito la mostra è multimediale.
Le competenze argomentative e comunicative, il pensiero critico, saper prenotare il palasport – sono tutte cose benedette, salvo che usare i testi letterari per questi esercizi di casuistica sembra uno spreco, o addirittura un errore categoriale: davvero non c’è niente di più urgente da imparare dalla letteratura? Saper argomentare è importante, ma è ancora più importante, e più difficile, impadronirsi di quell’arte solitaria che è la lettura individuale. A questo scopo, anziché “batterie” infinite di esercizi impostati come attività di gruppo, sono più espedienti analisi dei testi che, senza eccedere in formalismi, aiutino gli studenti a capire che cosa di autentico e utile per loro, presi uno ad uno, dica la pagina che hanno appena letto – lettura che dovrebbe appunto somigliare il più possibile a quella di Machiavelli: silenziosa e solitaria. Si legge per crescere, per affinare la propria intelligenza, e questo richiede almeno un pizzico dell’attitudine antisociale del Machiavelli serotino. Ho l’impressione che questa verità non venga ripetuta abbastanza.
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Queste osservazioni suoneranno forse un po’ stridule. La lettura non è insieme coltivazione di sé e comunicazione con gli altri? Certo che lo è. Temo però che la parola-tacchino condivisione – intesa, lo ripeto, come valorizzazione del noi rispetto all’io, del dialogo tra pari rispetto al dialogo solitario con gli “antiqui huomini” – temo che questa attitudine scolastica abbia finito per influenzare anche la scelta dei libri, o delle porzioni di libro che chiediamo di leggere ai nostri studenti.
Per spiegarmi, mi servo di una seconda parola-tacchino, stavolta una parola inglese, relevant, che vuol dire ovviamente “rilevante”, ma che nell’uso corrente assume la sfumatura di “significativo in quanto tocca questioni che ci stanno a cuore”. “A book’s relevance today – dice l’AI – depends on its themes and how they resonate with current issues”. E’ rilevante perché risuona, ovvero instaura con la persona che legge una sorta di immediata connessione emotiva.
A questa fissazione per la rilevanza è legata una prassi scolastica che mi pare quasi sempre deteriore, la prassi che consiste nell’unire anziché nel separare, nel valorizzare le analogie anziché le differenze. Only connect è una divisa che può funzionare forse ai gradi più alti della cultura, in chi abbia già accumulato una profonda esperienza dell’arte; ai livelli più bassi è un esercizio di retorica e di velleitarismo. Nei mesi scorsi ho scritto insieme ad alcuni collaboratori le nuove indicazioni nazionali relative all’insegnamento della letteratura nelle scuole, e ho dovuto inventarmi anche per la scuola del primo ciclo dei “raccordi interdisciplinari” (così il format ministeriale), ho cioè dovuto provare a costruire ponti tra le discipline speculando sulle “sinergie” tra l’italiano e la storia, l’italiano e la geografia, l’italiano e la fisica. Ma credo che abbia ragione Antonio Calvani quando dice che questo zelo interdisciplinare è il frutto di una pedagogia ingenua (intervista a “Orizzonte Scuola”, 2 maggio 2025): “Tra chi l’interdisciplinarità la pratica sul serio c’è qualcuno che sia arrivato a quel livello senza essere passato da una solida preparazione interna alla/e discipline? Ong ha dimostrato il significato dell’avanzamento del pensiero scientifico con l’avvento dei manuali (testi in grado di recintare in modo coerente e esaustivo un sapere chiuso) rispetto a forme più interdisciplinari, ma scientificamente assai più gracili quali quelle dei saperi medievali o di altri modelli più primitivi”.
Come si sa, il morbo si è esteso all’esame di stato, o forse al contrario è disceso dall’esame di stato alla prassi scolastica. Fatto sta che, alla fine del quinto anno, a diciottenni quasi sempre digiuni di autentica cultura viene chiesto di imbastire un discorso che tenga insieme (copio da uno dei tanti siti che offre a pagamento agli studenti dossier per la preparazione all’esame) “testi scritti, immagini, opere d’arte, stralci di documenti, disegni, loghi o altro”. Sono prove che metterebbero in difficoltà Max Weber. Chi ha avuto la ventura di assistervi, ne è uscito con un senso di costernazione: per l’ignoranza degli studenti camuffata da scienza, per l’imbarazzo dei commissari, per la mesta idiozia dell’intero macchinario.
Dall’altra parte, se l’arte disinteressata viene guardata con sospetto, basta dimostrare che anch’essa è, a guardar meglio, ordinata a un fine che ci riguarda, dunque anch’essa rilevante. Solo che non è affatto detto che questo genere di connessione tra il passato e il presente venga prodotto dai testi qualitativamente migliori, al contrario: a risuonare possono essere testi che hanno facile presa sul lettore ingenuo anche perché ingenui essi stessi, o al contrario scaltrissimi nel loro voler creare con lui la suddetta, superficiale, connessione emotiva. Ed è inoltre probabile che a mano a mano che arretriamo nel tempo, e che ci addentriamo tra le pagine degli “antiqui huomini”, il grado della loro rilevanza diminuisca proporzionalmente, perché – al di là della retorica – è molto difficile pensare che gli autori con cui si divertiva Machiavelli (il Dante lirico, Petrarca, Tibullo) possano dire granché a uno scolaro che abbia appena incontrato la letteratura. Venuti meno, o respinti in secondo piano, i criteri dell’eccellenza artistica e del rilievo storico, cioè le due ragioni fondamentali per cui si legge la letteratura, da un lato si corre il rischio di privilegiare quei testi che paiono essere più in sintonia con le “current issues”, e insomma toccano questioni che l’agenda politica o il sentimento diffuso portano a ritenere più vive e interessanti delle questioni che – torniamo sempre a lui – Machiavelli dibatteva con Tito Livio; dall’altro, ci si arroga il diritto di attualizzare (cioè appunto di rendere rilevanti) le opere del passato, obliterando il loro significato originario e dichiarandole tout court nostre contemporanee. E’ quanto accade per esempio in queste righe di presentazione di una serie di lezioni dal titolo Classici Contro al Teatro Olimpico di Vicenza: “E’ una questione di città, di civiltà, di polis e di democrazia. Per sapere cosa fare in questo tempo di migranti, di bambini, donne, uomini che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla sofferenza, le risposte non sono semplici da ritrovare, certo sono impegnative […]. Da tremila anni abbiamo qualche risposta, noi tutti, cittadini d’Europa. Basta rileggere l’Odissea di Omero. Basta vedere le Supplici di Eschilo. C’è tutto, ogni problema”.
Ecco in poche righe una conflagrazione che capita spesso di osservare nel corrente discorso sulla letteratura: tra i problemi e le buone cause del presente (la guerra, i migranti, la fame) e la letteratura del passato. “C’è tutto, ogni problema”. E’ a questo tipo di caotiche generalizzazioni che alludevo prima, parlando di un approccio ai libri che invita a valorizzare le analogie e a ignorare le differenze. E a me pare di poter leggere in questa chiave moralistica anche tutta la lunga vicenda dell’educazione civica nelle scuole italiane.
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Negli anni ho pubblicato alcuni manuali di letteratura per i licei che periodicamente devono essere aggiornati, soprattutto nella sezione dedicata ai Temi. Non è una cosa originale, quasi tutti i manuali hanno la sezione dei temi, per dare modo a insegnanti e studenti di leggere testi che appartengono a epoche diverse e perché constatino – specchiate nella letteratura – la persistenza di certe costanti semplicemente umane: l’amore, il crescere, la morte, la follia… Giorni fa, l’eccellente redazione con cui lavoro mi ha mandato questo messaggio: “Ci servono due temi per anno (6 in totale). L’argomento deve essere interessante dal punto di vista didattico + attualizzabile + prestarsi a una riflessione in chiave di Educazione civica + offrire un minimo di possibilità per un discorso interdisciplinare”.
In linea con questo programma, i temi che sceglieremo non saranno temi puramente letterari (poniamo: le forme della narrativa breve, o l’allegoria da Dante a Baudelaire) ma temi che si prestano ai collegamenti (altra insigne parola-tacchino, datata ma sempre verde) con quella sovra-disciplina che è l’educazione civica, vale a dire che dovremo cercare soprattutto testi non letterari che possano rientrare in quell’ambito: articoli di giornale, manifesti, trattati internazionali, norme giuridiche.
Nella storia è sempre capitato che qualcuno volesse fare della letteratura l’ancella di questo o quest’altro padrone. Per il Tolstoj di Che cos’è l’arte? doveva essere uno strumento del progresso morale in vista della fratellanza universale. Per il giovane Calvino il compito degli scrittori era “trasformare in poesia la nuova moralità dell’uomo comunista che si va delineando chiaramente in milioni di uomini di tutto il mondo”. E ci sono state epoche, e ci sono tuttora ambienti, in cui la letteratura si è messa al servizio del nazionalismo, dei miti di fondazione. Ma si danno anche forme di assoggettamento meno violente. In un suo saggio dei primi anni Ottanta Fortini parlava della subordinazione della letteratura alle onnipotenti scienze sociali (“Non si sa più bene quale sia il luogo del testo letterario fra le tante ‘scienze dell’uomo’”). E adesso eccoci arrivati alla letteratura subordinata all’educazione civica. Ma con, rispetto al passato, due significative differenze.
In primo luogo, mentre le tendenze del passato non potevano non sollecitare delle contro-tendenze, sicché il punto di vista comunista produceva il punto di vista anticomunista, e al punto di vista nazionalista si opponeva l’ecumenismo, l’educazione civica non sembra poter avere avversari: perché quale esteta o snob o elitista può non voler sfruttare il potenziale educativo della letteratura? Di fatto, la reintroduzione dell’educazione civica come materia curricolare nelle scuole italiane è stata votata unanimemente da tutti i parlamentari italiani: poche decine di astenuti, nessun contrario. Non saprei dire quante altre volte sia accaduto nella storia parlamentare recente, quanto spesso si verifichi il caso di una legge di così notevole impatto su tutti i cittadini – tutti coloro che vanno a scuola, o ci mandano i figli – che abbia trovato concordi tanto la destra (che ha formulato la proposta) quanto la sinistra quanto il centro. Voglio dire che la presenza dell’educazione civica come cornice ideale è più evanescente rispetto a quella delle ideologie o delle fedi, ma è forse destinata a durare più a lungo, perché non si vede chi – in nome di che cosa poi? Della distinzione tra giudizio estetico e giudizio morale? Della finalità senza scopo? – possa eccepire al civismo e alla buona educazione. Una volta, nella polemica sugli effetti nefasti del rock sulle menti degli adolescenti, chiesero a Frank Zappa se ci fossero testi di canzoni uscite negli ultimi anni che lui avrebbe preferito che i suoi figli non ascoltassero. Zappa rispose: “We Are the World”. Risposta eccellente, che significa: l’educazione artistica è una cosa completamente diversa dall’edificazione. Ma bisogna essere Zappa per potersela permettere.
In secondo luogo, mentre le tendenze del passato esprimevano una chiara – e perciò stesso contestabile – mappa dei valori e dei disvalori (anche riassumibile in formule come Franz Kafka o Thomas Mann?), l’educazione civica scolastica sembra avere obiettivi più sfuggenti. Incoraggia alla virtù in ogni campo e, nelle ore di italiano, invita a letture e riflessioni virtuose, soprattutto (torniamo alla nostra definizione di relevant) sulle “current issues” che agitano il mondo attuale. Funzionale a questo scopo è la maturazione, nello studente, del senso critico ovvero dello spirito critico: che è la terza e ultima parola-tacchino del mio discorso.
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Dopo aver letto le suddette indicazioni nazionali relative all’istruzione letteraria, un collega mi ha fatto osservare che avrei dovuto aggiungere appunto questo: l’acquisizione del senso critico. E anche nel dossier che il ministero mi ha mandato – che contiene i pareri delle varie associazioni scientifiche – questa richiesta affiorava più volte. “Lo studio della letteratura sin dalla scuola primaria di primo grado – scrivono per esempio i rappresentanti di una di queste associazioni – è funzionale alla maturazione intellettuale e al sicuro possesso del senso critico”. Ho cercato di capire che cosa precisamente s’intenda per senso critico, ma non posso dire di esserci davvero riuscito. Una definizione spiccia potrebbe essere forse questa: la capacità di vedere dentro e dietro le cose del mondo, al di là delle apparenze, per comprenderne la vera natura. Ma, da un lato, non è questo un obiettivo troppo ambizioso? Non è in fondo un altro nome di quella intelligenza che s’impiega tutta la vita ad accumulare e affinare? Dall’altro, credo sia percezione comune che proprio chi pensa di essere provvisto di senso critico risulta essere, alla verifica, il più conformista, cioè il meno critico degli esseri umani. In particolare, mi pare che in certi libri scolastici, e nelle menti dei loro autori, il senso critico finisca per corrispondere a un generico sentimento anticapitalista, articolato però non secondo i modi – diciamo – di Piketty, che richiedono competenze che è troppo difficile fabbricarsi, ma secondo il modo – diciamo sempre per amore di sintesi – di don Milani: bisogna voler bene ai poveri (o alle donne maltrattate, alle minoranze, alle persone che hanno un’identità sessuale problematica, ai disabili). Applicata al passato, come non può non applicarsi in un manuale di storia letteraria, significa forzare i testi obliterando ciò che dicono.
Eccole dunque, un’ultima volta in fila, le nostre parole-tacchino: condivisione, rilevanza, senso critico. In sé, non sono dei peccati. Lo diventano se, come mi sembra stia accadendo, veicolano l’idea che la letteratura serva a comprendere il mondo prima e più che a comprendere sé stessi. Credo che sia vero il contrario, e che sia importante ribadirlo soprattutto negli anni della formazione, quando si è deboli e spaesati e inconsapevoli di sé ma anche, insieme, prontissimi a sposare cause che per lo più si ignorano. Leggendo certi manuali di discipline umanistiche, ascoltando certi colleghi, constatando quante siano le buone cause cui viene assoggettata la formazione culturale degli scolari, ho spesso l’impressione che molti interpretino l’istruzione umanistica come una forma di attivismo. Mi pare che le parole-tacchino cui ho accennato qui assecondino questo equivoco, perciò bisognerebbe usarle con molta discrezione, o non usarle affatto.
Tutto ciò detto, è logico osservare che le parole vengono dopo le cose, e che le parole-tacchino, poco importanti in sé, riflettono un’idea dell’istruzione su cui invece varrebbe la pena di riflettere più distesamente. Senza dilungarmi, e alla luce di quello che ho osservato, mi pare di poter concludere così: venendo meno la fiducia nei classici, nel canone, nella tradizione umanistica, e in tutti gli altri vasti e già periclitanti ideali culturali cui si credeva fino a qualche generazione fa, per lo più con lo spirito degli atei devoti, l’istruzione in campo letterario prende sempre più spesso i connotati dell’edificazione morale, specie quando a maneggiarla sono insegnanti ingenui e impreparati, che quella fiducia non l’hanno mai avuta, e che sono invece pieni di zelo missionario. Questo genere d’istruzione considera la letteratura non come un fine ma come un mezzo: coerentemente, raccomanda testi che veicolano idee virtuose, mentre non tiene gran conto della loro qualità e del loro significato storico, e non ha pazienza con quei testi che per complessità o per ambiguità risultano inidonei alla persuasione. Gli effetti di questa deformazione sono già visibili in alcune antologie scolastiche, e nel medio-lungo periodo non credo possano stare senza conseguenze sul modo in cui le generazioni future guarderanno alla letteratura.
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