Le imprese chiedono una svolta a Meloni: più investimenti


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Il Documento
Non ristori, ma investimenti per 8 miliardi. Il documento di Confindustria.
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Alla fine gli industriali sembrano chiedere al governo meno di quanto promesso da Giorgia Meloni. Lo scorso aprile, la presidente del Consiglio aveva annunciato che avrebbe messo a disposizione 25 miliardi di euro di aiuti alle imprese per far fronte ai dazi imposti da Donald Trump. Di quel piano non se n’è saputo più nulla, e per fortuna, dato che sarebbe stato nient’altro che un sussidio ai dazi di Trump più che alle imprese esportatrici. In questo senso, è un segno di maturità che Confindustria non chieda questo tipo di sostegno: nel “Piano industriale straordinario per l’Italia” – il documento consegnato al governo con le proposte per la legge di Bilancio, visionato dal Foglio – il termine “ristori” non compare. C’è ovviamente la descrizione di un contesto globale ostile, con l’industria italiana stretta tra i dazi di Trump (il mercato Usa rappresenta il 10 per cento dell’export e attiva 90 miliardi di produzione manifatturiera) e l’aggressività della Cina che cerca nuovi sbocchi. Ma il Piano confindustriale propone di affrontare questa fase critica attraverso tre linee d’intervento: stimolo agli investimenti, rilancio della competitività, creazione di un contesto attrattivo.
Al posto dei 25 miliardi promessi da Meloni, Confindustria chiede un piano di sostegno agli investimenti da 8 miliardi di euro l’anno (valore analogo al piano 2020-22) su un orizzonte di 3-5 anni, utilizzando una parte delle risorse liberate dalla riprogrammazione del Pnrr (d’altronde era stata proprio la presidente del Consiglio a dire che 14 di quei 25 miliardi sarebbero arrivati dalla riprogrammazione del Pnrr). Come impiegare queste risorse? Rinnovando, migliorando o sostituendo le varie misure che vanno in scadenza come Transizione 4.0 e 5.0, crediti d’imposta per l’innovazione, per la Zes nel Mezzogiorno, per ricerca e sviluppo. Non si tratta semplicemente di rifinanziare le agevolazioni ma anche di rivederle, soprattutto quelle che non hanno funzionato bene come Transizione 5.0 (per quelle che invece funzionano bene, come il credito d’imposta su ricerca e sviluppo, la richiesta è di alzare l’agevolazione dal 10 al 20 per cento).
Il secondo capitolo del Piano per l’industria è la competitività. L’aspetto più rilevante della richiesta è di tipo fiscale e riguarda l’incentivo alla patrimonializzazione delle imprese, dopo che la Grande crisi del 2007-2008 che ha spinto le imprese italiane a capitalizzarsi di più e a ridurre la dipendenza dal finanziamento bancario. E’ chiara la nostalgia per l’Ace (Aiuto alla crescita economica), misura introdotta dal governo Monti, uno strumento fiscale strutturale e consolidato per il rafforzamento del capitale proprio delle imprese che, però, il governo Meloni ha deciso di sopprimere dal 2024. Le misure sostitutive, come la maxideduzione sul costo del lavoro e la cosiddetta Ires premiale, dice Confindustria, non sono altrettanto stabili, semplici ed efficaci: la proposta è quindi una “Ires premiale 2.0”, che superi le criticità di quella attuale attraverso una riduzione d’imposta incrementale in base determinate scelte d’investimento (nuove assunzioni, nuovi beni strumentali, etc.). In alternativa Viale dell’Astronomia chiede il ripristino, anche in via provvisoria, dell’Ace (ma è difficile che il governo faccia una marcia indietro così clamorosa, sebbene riconoscere un errore sarebbe un sintomo di saggezza).
Il terzo pilatro è quello dell’attrattività del sistema, ovvero la riduzione del “costo Italia” fatto di burocrazia e incertezza del diritto. L’organizzazione guidata da Emanuele Orsini rilancia “Costo Zero”, il pacchetto di proposte composto da 80 misure di semplificazione per migliorare il contesto imprenditoriale: finora il governo ha approvato o recepito solo un terzo delle misure, che sono appunto a “costo zero” e andrebbero a ridurre i famosi “autodazi” citati spesso dalla presidente del Consiglio. Quanto alle risorse, la Confindustria punta a un uso più efficiente dei fondi di coesione e, in maniera più dirigista, a una mobilitazione del risparmio delle famiglie verso l’economia domestica: l’obiettivo è aumentare di 2 punti percentuali gli investimenti dei fondi pensione e delle casse previdenziali nelle imprese italiane. Oltre alle proprie proposte, la Confindustria sta lavorando a un documento comune con i sindacati (Cgil, Cisl e Uil) da presentare al governo con quattro priorità per la manovra: costo dell’energia, investimenti, rinnovo dei contratti e defiscalizzazione dei premi di produttività.
Al di là delle singole proposte, c’è un problema di fondo nel rapporto tra governo e imprese, che riguarda sia le risorse sia la qualità degli interventi. Da un lato, molte politiche industriali e nuove misure di agevolazione non hanno funzionato. Dall’altro, la scorsa legge di Bilancio ha ridotto i trasferimenti alle imprese. Secondo l’analisi dell’ufficio parlamentare di Bilancio (Upb) se da un lato le famiglie sono state beneficiarie nette di 55 miliardi (prevalentemente per la riforma fiscale), al contrario nel biennio 2025-26 l’impatto netto su imprese e autonomi è stato negativo per circa 13 miliardi (quasi 5 miliardi dalla sola soppressione dell’Ace). Negli anni passati il governo puntava a difendere i lavoratori dall’inflazione, ma oggi c’è bisogno di accompagnare l’industria a superare la tempesta dei dazi (senza ristori).
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