La fine dell'esorbitante privilegio degli Stati Uniti

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La fine dell'esorbitante privilegio degli Stati Uniti

La fine dell'esorbitante privilegio degli Stati Uniti

WASHINGTON, DC – Come ministro delle Finanze francese negli anni '60, l'ex presidente francese Valéry Giscard d'Estaing si lamentava del "privilegio esorbitante" conferito agli Stati Uniti dal ruolo del dollaro come principale valuta di riserva mondiale. In sostanza, gli Stati Uniti potevano indebitarsi a bassi tassi di interesse, gestire deficit commerciali persistentemente elevati e finanziare il deficit di bilancio stampando moneta. Giscard d'Estaing non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a perdere questi vantaggi.

Dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha sistematicamente distrutto la fiducia nel dollaro (con ripercussioni sui mercati finanziari globali, sui governi e sulle banche centrali). Innanzitutto, ha messo le finanze pubbliche statunitensi su un percorso ancora più insostenibile di quanto non fossero prima del suo insediamento.

All'inizio del suo secondo mandato, Trump si è trovato di fronte a un deficit di bilancio che era già arrivato al 6,2% del PIL, quasi in piena occupazione, e a un rapporto debito pubblico/PIL che aveva sfiorato il 100%. Ma ora la situazione è destinata a peggiorare notevolmente. Lungi dal mettere ordine nelle finanze americane, Trump e i suoi sostenitori al Congresso hanno fatto approvare una "grande, splendida" legge fiscale e di spesa che, secondo le stime dell'ufficio di bilancio del Congresso, apartitico, aggiungerà circa 3.400 miliardi di dollari al deficit di bilancio nei prossimi dieci anni.

Il rapporto debito pubblico/PIL degli Stati Uniti è sulla buona strada per raggiungere un livello che, entro il 2030, sarà molto più elevato rispetto a quello registrato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il profilo demografico del Paese era molto più favorevole. A differenza del dopoguerra, l'attuale economia statunitense non è in grado di ridurre il proprio debito attraverso la crescita. Non sorprende che le principali agenzie di credito (tra cui Moody's) abbiano revocato il rating AAA agli Stati Uniti.

Un'altra posizione di Trump che mina la fiducia nel dollaro è la sua apparente mancanza di interesse nel tenere sotto controllo l'inflazione. Attualmente è superiore all'obiettivo del 2% fissato dalla Federal Reserve statunitense e c'è il rischio che aumenti ulteriormente a causa dei dazi aggressivi di Trump sui beni esteri (dazi che hanno raggiunto livelli mai visti negli ultimi cento anni). Ma Trump sta facendo pressione sulla Fed affinché abbassi i tassi di interesse di uno o due punti percentuali e ha indicato che intende sostituire l'attuale presidente della Fed Jerome Powell (il cui mandato termina a maggio 2026) con qualcuno più disposto ad allentare la politica monetaria.

A peggiorare la situazione, ha anche messo in dubbio l'impegno degli Stati Uniti a onorare pienamente i propri obblighi finanziari. Le prime bozze del suo "grande, bellissimo disegno di legge" includevano una disposizione che prevedeva una "tassa sulla vendetta" fino al 20% sui detentori esteri di attività statunitensi (inclusi i titoli del Tesoro) legate a paesi che l'amministrazione Trump accusa di perseguire politiche fiscali "ingiuste" nei confronti degli Stati Uniti. Inoltre, alcuni importanti consiglieri di Trump hanno suggerito di obbligare le banche centrali straniere a convertire i loro titoli del Tesoro statunitensi in obbligazioni a 100 anni senza cedola, nell'ambito del proposto "Accordo di Mar-a-Lago".

Se a questo si aggiunge l'evidente disinteresse di Trump per lo stato di diritto, è comprensibile che i mercati vedano poche ragioni per fidarsi degli Stati Uniti. Questo spiega perché il dollaro si è deprezzato di oltre il 10% dall'inizio del 2025 (la peggiore performance del primo semestre dal 1973). Questo calo è incoerente con i forti aumenti dei dazi di Trump e con l'ampliamento del differenziale dei tassi di interesse a breve termine con le altre principali economie (sviluppi che dovrebbero portare a un rafforzamento del dollaro).

Un altro segnale della perdita di fiducia del mercato negli Stati Uniti è l'aumento di oltre il 25% del prezzo dell'oro negli ultimi sei mesi. E un indicatore chiave, il rendimento dei titoli del Tesoro decennali (impennatosi all'inizio di aprile, quando Trump ha annunciato i dazi per il "giorno della liberazione") rimane elevato, nonostante la notevole turbolenza del mercato azionario, che normalmente avrebbe spinto gli investitori a cercare rifugio nella sicurezza percepita dei titoli del Tesoro.

Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: i mercati disapprovano il percorso di politica economica dell'amministrazione Trump. Il problema per Trump è che, a differenza dei politici, i mercati non possono essere pressati o assoggettati a un potere di supremazia. Se Trump continua a ignorare gli avvertimenti degli investitori (come sembra probabile), gli Stati Uniti farebbero meglio a prepararsi a una crisi del dollaro e del mercato obbligazionario prima delle elezioni di medio termine del prossimo anno. I giorni in cui il mondo permetteva agli Stati Uniti di vivere al di sopra delle proprie possibilità stanno rapidamente giungendo al termine.

Traduzione: Esteban Flamini

L'autore

Desmond Lachman, ricercatore senior presso l'American Enterprise Institute, è stato vicedirettore del Dipartimento di sviluppo e revisione delle politiche del Fondo monetario internazionale e capo stratega economico per i mercati emergenti presso Salomon Smith Barney.

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